Veniamo dunque al Piceno. Sempre nell’VIII secolo a.C., sul versante Adriatico fra Marche e Abruzzo, i Piceni hanno avviato la produzione e commercializzazione del vino, allevando vitigni selvatici. A Matelica, negli scavi di Villa Clara, gli archeologi hanno ritrovato tracce di circa duecento vinaccioli, nella tomba di un ricco principe piceno vissuto nel VII secolo a.C.
Verosimilmente, la vicinanza geografica con gli Etruschi ha influenzato profondamente la viticoltura dei Piceni, sia per le tecniche che per l‘adozione di vitigni non selvatici. I Piceni praticavano probabilmente una viticultura a paletto, che doveva essere maggiormente diffusa nella regione compresa fra il fiume Metauro (a nord) e il fiume Tronto (a sud). Non sembra essere un caso che questa stessa area corrisponda, grosso modo, all’area di produzione del Rosso Piceno (o Piceno). Quest’area coincide anche con quella che a livello di dati archeologici ci ha restituito più reperti, attestando una frequentazione picena pressoché continuativa a partire dal IX a.C. Nella cartina sottostante, possiamo vedere la suddivisione della regione Marche per aree di produzione vinicola ed i siti di rilevanza archeologica. Abbiamo segnato con dei puntini i siti di maggiore interesse, con le testimonianze archeologiche picene certe. Oggi, l’area di produzione del Rosso Piceno è stata stabilita per legge dal Disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di Origine Controllata (DPR 11.08.1968 G.U. 245 – 26.09.1968). In particolare, troviamo la maggiore espressione del vino Piceno tra le province di Ascoli Piceno e Fermo.
Nella vasta area marchigiana di coltivazione della vite vi è una zona più ristretta, che presenta delle differenze non solo a livello culturale, storico e archeologico, ma anche a livello di tecnica colturale. In una porzione dell’attuale provincia di Ancona, il vino che secondo il Disciplinare odierno si produce è diverso dal Rosso Piceno ed è denominato Rosso Conero. L’area del Rosso Conero, che appare come una sorta di “enclave vitivinicola” nelle terre del Rosso Piceno, è la stessa area che fu sotto il diretto influsso dei coloni greci di Ancona.
L’emporion di Ankòn, fondato nel 387 a.C. da esuli siracusani di stirpe dorica, influenzò non solo i commerci del Piceno verso l’esterno, ma anche il territorio dell’entroterra marchigiano: i coloni magno-greci importarono in quest’area la tecnica “ad alberello”, che ancora oggi caratterizza una parte della produzione del Rosso Conero (si veda ad esempio la cantina Umani Ronchi nell’osimano). Va ricordato, poi, che tale forma di coltivazione è ancora largamente praticata nelle isole greche, fatto che testimonia una profonda continuità storica.
Si può ipotizzare che le cultivar più utilizzate in queste zone fossero le stesse che sono utilizzate ancora oggi per la produzione dei vini rossi, quali il vitigno autoctono del Montepulciano e il Sangiovese (la cui origine è ancora molto dibattuta). I vini di Ancona dovevano indubbiamente essere di assoluto pregio: l’infaticabile Plinio il Vecchio, sempre nella sua Naturalis Historia, non lesinò sugli elogi tributati al vino “Pretoriano” del versante adriatico. Anche il celeberrimo cuoco Marco Gavio Apicio parlò nelle sue ricette del vino di Ancona (anconetanum).

In Italia, i coloni greci riuscirono a trasformare il vino da semplice prodotto alimentare a merce di scambio, diffondendo anche il culto di Dioniso, il dio del vino e dell’ebbrezza. Gli stessi Etruschi ebbero una divinità omologa, Fufluns e, come i Greci, svilupparono un proprio rituale legato al vino. Potremmo, perciò, ipotizzare che anche i Piceni imitarono i loro vicini, imparando a sfruttare l’enorme potenziale vitivinicolo e commerciale delle loro terre. Verosimilmente, aspetti sociali ed economici assunsero una valenza cultuale, come può desumersi dalle forme ceramiche tipiche esclusive di quest’area.
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Bibliografia essenziale:
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