Note per ricordare: concerto conclusivo del Festival Musicale Piceno 2016

Chiesa di San Paolino, Falerone (foto di Gianluca Moscoloni
Chiesa di San Paolino, Falerone (foto di Gianluca Moscoloni

Sabato 24 settembre, dopo l’interruzione imposta tragicamente dal sisma, si concluderà la 25° edizione del Festival Musicale Piceno, con un recital per violino solo del M° Marco Fornaciari. Il concerto si terrà nella splendida chiesa di San Paolino, a Falerone, alle ore 21.15  e sarà idealmente dedicato a Sergio Lucarini, presidente dell’associazione Festival Musicale Piceno, venuto a mancare a dicembre dello scorso anno.

Il Festival Musicale Piceno trova la sua forma attuale nel 1991 a Falerone, anche se, già dal 1986, a Servigliano si svolge annualmente la stagione concertistica del Festival dedicata alla musica da camera, che ospita artisti e compositori di chiara fama, offrendo così al territorio ed alla musica un  prezioso contributo culturale.

Oggi, avviata la 25° edizione, il Festival è stato privato del suo luogo simbolo: la chiesa di San Francesco (o San Fortunato), che ha riportato pesanti lesioni e l’irreparabile danneggiamento dell’organo Morettini, che era stato inaugurato dopo un lungo restauro solo alcuni giorni prima.

Interno della chiesa di San Paolino, Falerone (foto di Ginaluca Moscoloni
Interno della chiesa di San Paolino, Falerone (foto di Ginaluca Moscoloni

Il recital del M° Fornaciari concluderà la rassegna ad un mese esatto dal giorno della prima scossa, che, se da una parte ha privato il Festival della sua sede storica, dall’altra rappresenta uno sprone per continuare a divulgare la musica da camera, cercando l’aiuto di tutti coloro che nella musica trovano conforto e gioia.

Occorre ringraziare tutti coloro che in questi anni hanno reso possibile il Festival, realizzando qualcosa di grande in un piccolo, ma meraviglioso, borgo di provincia.

Infoline: 0734 710147

 

Il Museo archeologico di Monte Rinaldo

Aperto nel 2008, il piccolo Museo Civico Archeologico di Monte Rinaldo contiene una raccolta di reperti provenienti dal sito archeologico in località “La Cuma”.

Sede del Museo archeologico di Monte Rinaldo
Sede del Museo archeologico di Monte Rinaldo

L’ex Chiesa del SS. Crocifisso, in via Crocifisso snc, poco distante dal centro storico, è stata scelta come location ideale per i reperti archeologici in quanto la stessa chiesa fu edificata con materiali di riutilizzo provenienti dal sito archeologico.

In apposite teche sono esposte le lastre in terracotta che ricoprivano le travi lignee del tempio (appartenenti a diverse fasi cronologiche del sito di Monte Rinaldo), le antefisse del tetto con la rappresentazione della Potnia Theròn (la “Signora degli animali”), i materiali del frontone, con la testa di un giovane Ercole e altri frammenti di teste e panneggi. Inoltre, vi sono alcuni degli antichi ex voto anatomici raffiguranti animali e figure femminili, che i pellegrini portavano qui in offerta alla divinità, per ingraziarsi il favore di una sanatio.

Utilissimo a scopo didattico è anche il plastico qui esposto con una verosimile ricostruzione del santuario.

Il costo dell’ingresso al museo è attualmente di 3,00 euro e comprende anche la visita guidata al sito archeologico “La Cuma” di Monte Rinaldo. Per informazioni sugli orari di apertura o per prenotare una visita all’area archeologica di Monte Rinaldo, consigliamo sempre di contattare anticipatamente il Comune allo 0734 777121, oppure la D&P-Turismo e Cultura 347 2892519, o di visitare il sito www.monterinaldo.135.it per consultare gli orari aggiornati.

Bibliografia essenziale:

Annibaldi G., Monterinaldo, in “Enciclopedia Arte Antica”, Supplemento, Roma 1973.
Ciuccarelli M.R., Il santuario di Monte Rinaldo (Ascoli Piceno) e il suo territorio, Pisa 1999
Catani E., Il Santuario Ellenistico Romano presso Monterinaldo: Un’emergenza archeologica e monumentale dell’Ascolano, in “Il Piceno in età romana dalla sottomissione a Roma alla fine del mondo antico”, Atti del 3° Seminario di Studi per personale direttivo e docente della scuola (Cupra Marittima, 1991), Cupra Marittima 1992.
Sisani S., Umbria Marche, Guide archeologiche Laterza, Roma-Bari 2006.

Il santuario ellenistico-romano di Monte Rinaldo

Nell’entroterra della provincia di Fermo si trova il comune di Monte Rinaldo, un piccolo paese dell’alta valle del fiume Aso, che custodisce nel suo ameno territorio uno dei siti archeologici più affascinanti delle Marche e del Piceno: un santuario ellenistico-romano.

Tra il 1958 e il 1963, a seguito di alcuni lavori agricoli, sono venuti alla luce i primi rinvenimenti archeologici, che hanno dato il via ad una serie di interventi di indagine, a tutt’oggi non ancora terminati. A seguito degli scavi, nel corso degli anni ‘60, le colonne del porticato sono state fatte oggetto di anastilosi, cioè sono state reinnalzate, restituendo in parte l’aspetto monumentale che il sito doveva avere anticamente.


Il santuario si trova sul pendio della collina che porta al centro cittadino, in una località chiamata già “La Cuma”
. Nonostante l’etimologia del nome “Cuma” abbia fatto pensare ad evocativi contatti con l’omonima città della Campania sede della celebre Sibilla, in realtà il termine si riferisce alla morfologia del territorio: infatti, nei testi medioevali latini la parola cuma indica un terreno in pendio, che digrada a fondo valle, proprio come quello dove si trova il sito archeologico di Monte Rinaldo.

Il portico del santuario di Monterinaldo
Il portico del santuario di Monterinaldo

Il santuario sorgeva su un ampio terrazzamento artificiale, sostenuto dall’imponente muro di fondo del porticato settentrionale, lungo 63,50 metri. Davanti all’imponente muro si sviluppava il portico, costituito da due file di colonne (porticus duplex), una di ordine tuscanico, l’altra di ordine dorico: insieme creavano il perfetto sfondo scenografico dell’area sacra.

Di fronte al porticato, si trovava il tempio, oggi visibile solo a livello delle fondamenta. Le strutture sono state interpretate come l’alzato della cella del tempio, con due alae laterali, o come i muri divisori di tre celle sul modello del tempio capitolino di Roma.

L’ingresso doveva trovarsi sul lato meridionale, dove si trova l’attuale ingresso al sito archeologico. Recenti indagini hanno portato alla luce le fondazioni di un’ala del porticato ad Est, che doveva chiudere il complesso da quel lato, così come si può supporre accadesse ad Ovest del tempio. Nelle immediate vicinanze, vi sono altre strutture murarie, a suddividere cinque piccoli ambienti, collegati ad un pozzo (ora non più visibile) tra il porticato Nord e il podio.

I reperti più antichi, come gli ex voto anatomici, sembrano testimoniare l’esistenza del sito già a partire dal III secolo a.C., ma la reale monumentalizzazione del santuario si ha a partire dalla metà del II a.C. fino al I a.C.: proprio in quel periodo il territorio Piceno entrava nell’orbita di conquista di Roma a seguito della battaglia di Sentino.

Il santuario perse gradualmente importanza a partire dal II d.C. fino al completo abbandono nel III d.C., a seguito di frane e smottamenti, che ne compromisero l’utilizzo. Il materiale di recupero fu dapprima utilizzato per la costruzione di una domus romana non distante dal sito. Successivamente, altri materiali furono riutilizzati per alcune costruzioni di Monte Rinaldo, come ad esempio l’ex chiesa del SS. Crocifisso, oggi Museo Civico Archeologico.

Il quesito più grande cui gli studiosi non sono riusciti (ancora) a dare una risposta soddisfacente, è a chi fosse dedicato il tempio. Le ipotesi più accreditate volgono lo sguardo verso Artemide o Giove, anche sulla base dei materiali ritrovati. Altri hanno parlato di una dedica alla dea Cupra, l’unica divinità picena di cui ci sia giunta notizia; ma l’accostamento, seppur suggestivo, non ha trovato dati di conferma.

L’unico elemento sicuro è che vi fosse un culto correlato all’acqua, elemento fondamentale in una società agricola. I pozzi e le canalizzazioni ritrovati provano che vi fosse una sorgente, ritenuta probabilmente curativa: i pellegrini del santuario venivano qui a lasciare i loro ex voto anatomici (e non solo) per chiedere alla divinità protettrice una sanatio, cioè la guarigione di una o più parti del corpo affette da una patologia.

La tipologia del santuario di Monte Rinaldo rientra nella serie di templi porticati tardo-ellenistici, costruiti in ambito extra-urbano, in zone considerate di confine, con funzione di demarcazione sacrale. Solo nell’Italia centrale sono numerosi gli esempi che attestano tale modello architettonico: il santuario di Giunone a Gabii, quello di Ercole Vincitore a Tivoli, quello di Esculapio a Fregellae e il santuario del Sannio di Pietrabbondante.

Il santuario di Monte Rinaldo, tra il mare Adriatico e i monti Sibillini, nel bel mezzo delle valli del fiume Aso e dell’Ete, non lontano dall’itinerario dell’antica via Salaria Gallica, è un fulgente esempio del fenomeno storico di “romanizzazione” nel Piceno, in cui le tradizioni italiche e il sincretismo romano hanno trovato una maestosa simbiosi.

Plastico tridimensionale del sito
Plastico tridimensionale del sito

Oggi l’area archeologica “La Cuma” di Monte Rinaldo fa parte del TAU (Teatri Antichi Uniti delle Marche): in estate funge da sfondo scenico per spettacoli teatrali e culturali unici per atmosfera.

Infine, suggeriamo la visione di un interessante videoclip, presente online su YouTube, della British Pathè, leggendaria agenzia britannica di cinegiornali storici, in cui si documenta l’inizio dello scavo in quella che oggi è l’Area Archeologica “La Cuma” di Monte Rinaldo (segui il link per visualizzare il video: https://m.youtube.com/watch?v=bzLP6jkZcVo).

Bibliografia essenziale:
Annibaldi G., Monterinaldo, in “Enciclopedia Arte Antica”, Supplemento, Roma 1973
Ciuccarelli M.R., Il santuario di Monte Rinaldo (Ascoli Piceno) e il suo territorio, Pisa 1999
Catani E., Il Santuario Ellenistico Romano presso Monterinaldo: Un’emergenza archeologica e monumentale dell’Ascolano, in “Il Piceno in età romana dalla sottomissione a Roma alla fine del mondo antico”, Atti del 3° Seminario di Studi per personale direttivo e docente della scuola (Cupra Marittima, 1991), Cupra Marittima 1992
Sisani S., Umbria Marche, Guide archeologiche Laterza, Roma-Bari 2006

Le origini del saltarello marchigiano

Il saltarello è un ballo tradizionale di corteggiamento del Centro Italia, diffuso in special modo nelle Marche, in Umbria, Lazio, Abruzzo e Molise. Sul finire del XVII secolo, il termine “saltarello” si è diffuso anche nelle regioni centro-settentrionali (Emilia Romagna, Veneto, Toscana), benché in realtà non indicasse il medesimo tipo di danza.

Ogni regione, ma possiamo dire ogni paese, aveva in passato una propria variante di saltarello. Non esiste dunque una coreografia uniformata: per lo più il saltarello si balla in coppia (uomo-donna, ma anche uomo-uomo o donna-donna), con rare forme di danza a quattro, in cerchio. È una danza veloce, in ritmo di 6/8 o 2/4.

Per meglio comprendere la storia di questo ballo, è doveroso fare una breve riflessione di carattere etimologico. “Saltarello” deriverebbe dalla parola latina saltatio, una danza sacra romana, che i sacerdoti Salii eseguivano durante determinate feste e occasioni importanti per la comunità.

Coperchio bronzeo piceno con rituale di danza
Coperchio bronzeo piceno con rito di fondazione proveniente da San Severino e conservato presso il Museo Archeologico Nazionale delle Marche

Le origini antichissime della saltatio sono provate dal fatto che i sacerdoti Salii, durante le loro esibizioni, indossassero dei costumi che rievocavano l’abbigliamento degli antichi guerrieri centro-italici dell’VIII a.C. Veri e propri “abiti fossili”, i costumi cerimoniali dei Salii comprendevano un elmo dal forte richiamo villanoviano, una spada corta e, addirittura, un kardiophylax, cioè una corazza per il petto, largamente in uso sia tra gli Etruschi (si veda la “tomba del Guerriero” di Tarquinia), sia tra i Piceni (basti pensare al guerriero di Capestrano).

I ritrovamenti archeologici nelle Marche testimoniano che i Piceni avessero un rituale di danza armata, con ogni probabilità precedente o quantomeno coeva, a quella in uso tra i Romani. Fra tutti, il famoso coperchio in bronzo proveniente da una tomba picena di Pitino, a San Severino Marche, ritrae quattro uomini armati dalla forte connotazione itifallica, che danzano in cerchio attorno ad un totem. I quattro guerrieri, vestiti di tutto punto con grandi elmi, lance e scudi, si stanno cimentando in quella che, con ogni probabilità, è una danza propiziatoria per un rito di passaggio: ognuno di loro esegue dei passi individuali differenti. Le braccia alzate indicano che stanno danzando in una particolarissima coreografia di gruppo.

Coperchio bronzeo piceno con rito di fondazione, conservato presso il Museo Archeologico Nazionale delle MarcheIn un altro coperchio bronzeo piceno (conservato anch’esso al Museo Archeologico Nazionale delle Marche), la scena rappresentata è ben più complessa: qui sembra esservi un’intera comunità impegnata nel rituale sacro della saltatio armata. Tutte le figure stilizzate sono state ritratte in atteggiamento di danza (con le braccia alzate), tranne una, intenta a condurre un aratro trainato da un toro. Ciò potrebbe indicare che siamo di fronte ad un rito di fondazione, un importante cerimoniale comunitario e sociale, dalla forte valenza sacrale.

Nelle bellicose popolazioni dell’Italia preromana, le danze di origine sacrale-militare debbono aver lasciato una profonda influenza nel popolo, secondo uno schema diffuso nel corso della storia, per cui elementi di origine religiosa sono stati “reinterpretati” nel mondo profano. Non è dunque un caso che i Romani chiamassero saltationes le danze di estrazione popolare. Con il tramonto dell’Impero, le testimonianze sulla danza si interrompono: l’Alto Medioevo tace sulle forme coreutiche in uso nella società. Le fonti iconografiche e scritte ricominciano ad essere copiose a partire dal XIV secolo.

Il primo documento noto riguardante il saltarello è il manoscritto Add. 29987, conservato al British Museum di Londra. Si tratta di un manoscritto toscano compilato fra il XIV e il XV secolo e appartenuto ai Medici. Contiene una miscellanea di brani musicali: madrigali, ballate, motetti e danze, fra cui alcuni saltarelli. Nel 1455, il celebre maestro di danza Antonio Cornazzano, nel suo trattato Libro dell’arte del danzare, descrive il saltarello come “ballo de villa” (danza rustica), contrapponendola alle danze aristocratiche.

Il saltarello si afferma come una delle quattro forme di danza di corte fino al XVI secolo, accanto alla bassadanza, alla quaternaria e alla piva. Solo tra il XVII e il XVIII secolo compaiono i primi documenti che lo attestano quale danza popolare. Non è chiaro come il saltarello “popolare” abbia influenzato il saltarello “di corte” e viceversa. Deve esservi stata una prolungata commistione fra le due forme: depurato dei suoi elementi più rustici, è diventato danza di corte. Non è escluso che alcuni elementi più aristocratici fossero poi riassorbiti dai danzatori popolari, come nella castellana, considerata una forma “urbana” di saltarello.

Dal XVII secolo il saltarello si afferma come la principale danza tradizionale del centro Italia. Le sue varianti locali sono ancora oggi conosciute e praticate, anche se durante il secolo scorso, a causa della progressiva industrializzazione, ha perso i suoi caratteri originari.

Frontespizio dei “Canti popolareschi piceni” (1940)

Le melodie del saltarello sono state a lungo tramandate oralmente. Gli studi etnomusicologi del secolo scorso hanno contribuito a preservarne la conoscenza: pionieristiche sono state le trascrizioni di Giovanni Ginobili, contenute nei volumetti dei Canti popolareschi piceni, redatti insieme al compositore maceratese Lino Liviabella.

 

Per quanto riguarda lo strumentario, il saltarello si esegue accompagnato da organetto e tamburello. In provincia di Fabriano, oltre al tipico organetto, sono presenti il violino e il violone, ma non il tamburello. Il saltarello costituisce, inoltre, la base melodica e metrico-ritmica di molti canti tradizionali, fra cui i canti a dispetto e alcuni canti di questua.

Tamburelli con sonagli e decorazioni, provenienti dalla zona del maceratase.
Tamburelli con sonagli e decorazioni, provenienti dalla zona del maceratase.

Non potremo mai dire con certezza quanto le saltationes antiche e il saltarello fossero coreograficamente vicini a quello odierno. Una linea di continuità tra le due forme di danza può essere rintracciata nell’intrinseca valenza religiosa, con elementi di chiara matrice erotica che richiamano i riti legati alla fertilità femminile e alla fecondità del mondo agreste. La commistione di elementi al limite tra sacro e profano è indubbiamente presente nel saltarello tradizionale e fa capo ad un patrimonio culturale senza tempo, da ricordare e da tramandare.

Il saltarello contiene ancora l’anima di chi vive nel Piceno: i suoi passi e le sue musiche non sono un semplice ballo, ma un modo di intendere la vita, di esorcizzare il male e di celebrare la pienezza che solo l’amore per la Natura può testimoniare. Ballare il saltarello è un modo per capire da dove veniamo, chi continuiamo ad essere, dove possiamo andare.

Ringraziamo l’attività Rocchetti Strumenti Musicali, per averci consentito di fotografare i tamburelli storici, le cui immagini sono contenute nell’articolo.

Bibliografia essenziale:
Bessone L. & Scuderi R., Manuale di Storia romana, Bologna, 1994.
Brelich A., Paides e Parthenoi, Roma, 1969.
Cirilli R., Les prêtres danseurs de Rome, Parigi, 1913.
Colacicchi L., v. Saltarello, in “Enciclopedia Italiana Treccani”, Roma, 1936.
Colombo G., Florio C., Alvaro S., Il cammino dell’uomo. Civiltà e cultura, Roma, 1991.
Torelli M., Riti di passaggio maschili di Roma arcaica, in “Mélanges de l’Ecole française de Rome”, vol. 102, n. 1, 1990, pp. 93-106.
Treccani online, voce “Antonio Cornazzano”, in “Dizionario biografico degli Italiani”; http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/, link consultato in data 27 agosto 2016, ore 15:00.