Falerone, il teatro romano

L’antica città di Falerio Picenus fu fondata da Augusto nel 29 d. C.
Sappiamo che la valle del Tenna fu interessata dall’esproprio di terre che Augusto conferì ai veterani. La città godette in epoca imperiale di un certo prestigio e prosperità economica, come si può evincere dalla qualità dei suoi monumenti ancora oggi visibili nel parco archeologico: il bel teatro, i resti dell’anfiteatro, le cisterne.

La città cadde in decadenza verso la fine dell’Impero Romano, per via delle invasioni barbariche e delle guerre che scaturirono in seguito all’instabilità politica. Dopo il V d.C. la popolazione iniziò lentamente a spostarsi dalla pianura alla collina soprastante, dove sorge l’attuale città di Falerone.

Il gioiello del parco archeologico è sicuramente il teatro. La sua particolarità è quella di non essere adagiato su di un declivio, ma in pianura, dove l’ingengeristica romana trova la sua massima espressione. Il suo stato di conservazione è incredibilmente buono e il teatro viene tuttora utilizzato per spettacoli teatrali e concerti durante la stagione estiva.

Vista sull’ingresso occidentale del teatro.

Dei tre ordini originari di gradinate, sopravvivono i primi due: l’ima cavea e la media cavea. All’ima cavea si accedeva dalle due entrate: fu costruita su un terrapieno sia per sorreggere il peso della struttura sia per poter contare su un effetto naturale di risonanza. La media cava costituiva il secondo ordine di gradinate cui si accedeva attraverso i vomitoria. Indagini archeologiche hanno evidenziato come all’interno della struttura del secondo ordine di gradinate siano stati creati degli ambienti vuoti che fungessero da cassa di risonanza. Ancora oggi, la qualità dell’acustica è notevole e in caso di necessità consente agli attori di recitare senza microfono.

Resti del colonnato esterno.

Alla summa cavea, cioè la terza gradinata oggi non più visibile, probabilmente si accedeva attraverso rampe di scale adiacenti agli ingressi. La summa cavea era sostenuta da un colonnato esterno che creava un portico coperto.

Sopravvivono anche resti abbastanza leggibili del proscenio e della scena (cioè le strutture sopraelevate in cui recitavano gli attori e che fungevano da fondale). Sono visibili ancora le nicchie in cui verosimilmente erano allocate delle statue. Subito dietro, un’intercapedine era probabilmente usata per avvolgere il sipario. Sono state riportate anche alla luce le latrine, che si trovano vicino all’ingresso occidentale. Probabilmente dietro la scena esistevano altre strutture che facevano parte del teatro e che aspettano di essere riportate alla luce.

Resti del proscenio

Per visitare il teatro e il parco archeologico, contattare l’associazione Minerva al seguente numero telefonico: 3335816389.

Offida, Santa Maria della Rocca

Ci sono molte cose che vale la pena fare nella vita. Una di queste è visitare la splendida città di Offida, situata nel cuore del Piceno. Chi va a Offida non può non recarsi a Santa Maria della Rocca, che si staglia solitaria sulla rocca della città, a strapiombo sulla campagna circostante tutta coltivata a vigneti.

La vista della chiesa provenendo dal centro della città

CENNI STORICI
La chiesa esisteva già nel 1039 quando Longino d’Azone, signore di Offida di origine franca o germanica, donò gran parte dei suoi possedimenti all’Abbazia di Farfa, compreso il castello di Offida e la chiesa esistente di Santa Maria della Rocca.

La chiesa di Santa Maria fu in parte demolita quando i monaci decisero di riedificarla nel 1330. La nuova chiesa fu ampliata: fra i muri vecchi e i nuovi furono ricavate due intercapedini, una delle quali usata come cimitero.

Ossario ricavato nell’intercapedine dei muri

A sud costruirono un monastero, demolito alla fine del XVIII secolo. Il materiale fu reimpiegato per la costruzione della Collegiata della città.

Nel XVI secolo fu completato il piano superiore, forse per usare il sotterraneo interamente come cimitero, a seguito della pestilenza del 1511. L’accesso al piano inferiore fu murato. Nel 1562, gli offidani ottennero da Ranuccio Farnese  – abate feudatario di Farfa – la soppressione dell’ordine dei monaci farfensi di Santa Maria. Fu creato un collegio canonicale composta da 18 sacerdoti e si stabilì che il priore dovesse essere un monaco di Offida.

CRIPTA
Il visitatore che proviene da est vede per prima cosa l’abside e l’ingresso alla cripta cui si accede attraverso una scalinata e un portale scolpito del XIV secolo, decorato con foglie e figure di animali.

Nell’abside centrale vi sono dipinti attribuiti al Maestro di Offida. In entrambi i lati dell’emiciclo ci sono due cappelle poligonali con 2 altari. L’altare della cappella di sinistra presenta un canaletto che fa pensare al riuso di un antico altare pagano.

La chiesa originaria al piano inferiore

Proseguendo e salendo tre gradini si accede a quella che era la chiesa originaria, divisa in tre parti da due file di colonne e due di semicolonne. Si notano facilmente le intercapedini createsi con l’ampliamento della Chiesa in una delle quali è possibile vedere ancora delle ossa.

PIANO SUPERIORE
Il piano superiore è a croce latina. Il transetto è appena pronunciato cosicché la chiesa pare ad unica navata.

Il piano superiore

Sulle pareti rimangono importanti resti della decorazione ad affresco, fra cui La sepoltura di Gesù, La crocifissione, La fuga in Egitto del Maestro di Offida. Sulla parete Nord vi è una statua lignea del XVI secolo raffigurante San Benedetto da Norcia e, sempre sullo stesso lato, La Madonna del latte con San Sebastiano, affresco di fra Marino Angeli del secolo XV.

La facciata della chiesa verso ovest

 

La facciata principale è posta sul lato ovest: resta quindi celata alla vista del visitatore che viene da est. Il portale è sovrastato da un bellissimo rosone in legno di quercia. 

Per visitare la chiesa consultare il sito www.turismoffida.com o chiamare il 334 1547890.

Il carciofo di Montelupone: elisir di salute e bellezza

Discovermarche

Tutti sappiamo che per una corretta alimentazione occorre mangiare molta verdura.

Durante una delle lunghe conversazioni telefoniche, una mia amica italiana mi raccontava di come utilizza in cucina verdure rigorosamente di stagione.

Non avevo mai pensato ai vegetali come prodotti con forti poteri “ antiossidanti” e come mezzi di prevenzione di malattie. Per me, la verdura ha da sempre rappresentato un contorno gustoso e, soprattutto, con poche calorie il cui senso di sazietà aiuta notevolmente a mantenere la linea.

Ma davvero, non mi ero mai soffermata su altre qualità degli ortaggi.

La mia amica mi raccontava di essersi trovata a parlare con alcuni produttori di ortaggi che le hanno spiegato che, se usassimo con criterio e quotidianamente alcuni prodotti, potremmo evitare molti medicinali.

Voi, sapevate che il carciofo potrebbe essere una nuova arma contro il tumore???

Il giornale web ANSA.it, nella sezione Salute & Benessere, presenta il carciofo come possibile…

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Il Sacro, collettiva d’arte degli ex allievi dell’Istituto d’Arte

A Fermo, l’Oratorio di Santa Monica ospiterà fino al 7 maggio la terza edizione della mostra collettiva curata dall’Associazione degli Ex Allievi dell’Istituto Statale d’Arte “Umberto Preziotti”.

Non poteva essere scelto luogo più significativo visto il tema della mostra: il Sacro.

Lo spazio architettonico e il mirabile ciclo d’affreschi dell’oratorio entrano in relazione con le opere esposte, in un dialogo non solo tematico, ma anche diacronico, per una delle domande che più inquietano l’uomo: la domanda sul divino, sull’Aldilà, sulla redenzione e la sua possibilità, sul senso della vita, sull’uomo stesso.

Panoramica della mostra (foto realizzata e gentilmente concessa dal M° Donato Landi).


Ciascuno dei 41 artisti in esposizione ha offerto il proprio prezioso e personale contributo
: il risultato è un itinerario espositivo che si fa costellazione e che riesce ad instaurare un rapporto vivo con la storia dell’arte e con la storia del Sacro.

Particolare della mostra: sulla sinistra la splendida Santa Lucia, statua lignea realizzata da Giuseppe Pende.

Il Sacro è così intimamente connesso alla rappresentazione artistica che ogni opera d’arte è lo svelamento di quel che non può essere visto. L’intreccio fra sacro e immagine artistica sarà l’oggetto della conferenza della Prof.ssa Luana Trapè: Il sacro e l’arte. Dalle pitture rupestri a Rothko.

La professoressa ripercorrerà la storia dell’arte dall’epoca primitiva fino alla contemporaneità passando attraverso la mediazione dello spirito religioso e e del pensiero filosofico. La conferenza si terrà sabato 22 aprile a Fermo, presso l’Auditorium San Zenone, alle ore 18:00.

Altro particolare della mostra.

Di seguito citiamo tutti i 41 artisti: Simone Beato, Massimiliano Berdini, Yonas Bibini, Anna Maria Bozzi, Marisa Calisti, Grazia Carminucci, Mario Censi, Angela Ceri, Caterina Ciarrocchi, Gabriella Colonnella, Sante Damiani, Giuliano De Minicis, Josip Dolic, Giovanni Ercoli, Maria Feliziani, Angela Illuminati, Donato Landi, Giuseppe Mitarotonda, Sandro Mori, Fabrizio Moriconi, Mario Moronti, Francesco Musati, Giuseppe Pancione, Eleonora Paniconi, Lucia Postacchini, Mauro Postacchini, Valeriano Prati, Massimo Ripa, Stefano Rosa, Gisella Rossi, Patrizio Sanguigni, Renato Santiloni, Micaela Sason Bazzani, Ermanna Seccacini, Nadia Simonelli, Teo Tini, Corrado Virgili, Silvano Zanchi. Clicca sul link per scaricare il Catalogo completo della Mostra.

Per le visite, ecco alcune informazioni utili:
Dall’8 aprile al 7 maggio, Oratorio di Santa Monica, Fermo.
Orari: martedì-venerdì 17:00 – 19:00, Sabato e domenica 10:30-12:30, 17:00-19:00.
Informazioni: 333 9919288
Email: exallieviartepreziotti@gmail.com

Sessant’anni di “Cuma”

Monte Rinaldo

Il 2017 sta per arrivare e vi presentiamo in anteprima il calendario che celebrerà i festeggiamenti per i sessant’anni della scoperta di Cuma, luogo dove nel 1957 si sono scoperti i resti di un importante santuario ellenistico di età tardo-repubblicana. Oggi La Cuma è una delle più importanti realtà archeologiche della Regione Marche e per questo vogliamo festeggiarla con una serie di scatti inediti e mai visti prima. Buona visione!

#BuonAnno1957-2017#SessantannidiCuma#Monterinaldo

Per la visualizzazione clicca qui –>1957-2017 Sessant’anni di Cuma – Calendario

Un particolare ringraziamento va a:
Comune di Monte Rinaldo
– Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio delle Marche
Rete Museale dei Sibillini
Pro Loco Monte Rinaldo “Cuma”

La Cuma, una delle aree archeologiche più importanti del centro Italia, è stata scoperta nell’anno 1957 e con alcune…

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Flowering of Castelluccio

Splendidi scatti dei nostri paesaggi. Complimenti! Sono bellissimi!

Castelluccio di Norcia is a small village, that lies in the “Parco nazionale dei Monti Sibillini” in the Umbria region, and with its 1400 metres above the sea is one of the highest in the Appennini. The historical centre is placed on the top of a hill, in the middle of a tableland bearing the same name, very wide, where the famous lentils are coltivated.
It is the blooming of the latter, with other kind of flowers, that offer between the end of May and the beginning of June a truly unique sight.

The blooming occurs mainly between May and July, but there is not a precise period because it all depends on the climate conditions. There is not even a peak, but it is a succession of blossomings of different species: daffodils, poppies, violets, gentianellas, lentils and many others. My advice is to check the blooming on the official…

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Note per ricordare: concerto conclusivo del Festival Musicale Piceno 2016

Chiesa di San Paolino, Falerone (foto di Gianluca Moscoloni
Chiesa di San Paolino, Falerone (foto di Gianluca Moscoloni

Sabato 24 settembre, dopo l’interruzione imposta tragicamente dal sisma, si concluderà la 25° edizione del Festival Musicale Piceno, con un recital per violino solo del M° Marco Fornaciari. Il concerto si terrà nella splendida chiesa di San Paolino, a Falerone, alle ore 21.15  e sarà idealmente dedicato a Sergio Lucarini, presidente dell’associazione Festival Musicale Piceno, venuto a mancare a dicembre dello scorso anno.

Il Festival Musicale Piceno trova la sua forma attuale nel 1991 a Falerone, anche se, già dal 1986, a Servigliano si svolge annualmente la stagione concertistica del Festival dedicata alla musica da camera, che ospita artisti e compositori di chiara fama, offrendo così al territorio ed alla musica un  prezioso contributo culturale.

Oggi, avviata la 25° edizione, il Festival è stato privato del suo luogo simbolo: la chiesa di San Francesco (o San Fortunato), che ha riportato pesanti lesioni e l’irreparabile danneggiamento dell’organo Morettini, che era stato inaugurato dopo un lungo restauro solo alcuni giorni prima.

Interno della chiesa di San Paolino, Falerone (foto di Ginaluca Moscoloni
Interno della chiesa di San Paolino, Falerone (foto di Ginaluca Moscoloni

Il recital del M° Fornaciari concluderà la rassegna ad un mese esatto dal giorno della prima scossa, che, se da una parte ha privato il Festival della sua sede storica, dall’altra rappresenta uno sprone per continuare a divulgare la musica da camera, cercando l’aiuto di tutti coloro che nella musica trovano conforto e gioia.

Occorre ringraziare tutti coloro che in questi anni hanno reso possibile il Festival, realizzando qualcosa di grande in un piccolo, ma meraviglioso, borgo di provincia.

Infoline: 0734 710147

 

Il santuario ellenistico-romano di Monte Rinaldo

Nell’entroterra della provincia di Fermo si trova il comune di Monte Rinaldo, un piccolo paese dell’alta valle del fiume Aso, che custodisce nel suo ameno territorio uno dei siti archeologici più affascinanti delle Marche e del Piceno: un santuario ellenistico-romano.

Tra il 1958 e il 1963, a seguito di alcuni lavori agricoli, sono venuti alla luce i primi rinvenimenti archeologici, che hanno dato il via ad una serie di interventi di indagine, a tutt’oggi non ancora terminati. A seguito degli scavi, nel corso degli anni ‘60, le colonne del porticato sono state fatte oggetto di anastilosi, cioè sono state reinnalzate, restituendo in parte l’aspetto monumentale che il sito doveva avere anticamente.


Il santuario si trova sul pendio della collina che porta al centro cittadino, in una località chiamata già “La Cuma”
. Nonostante l’etimologia del nome “Cuma” abbia fatto pensare ad evocativi contatti con l’omonima città della Campania sede della celebre Sibilla, in realtà il termine si riferisce alla morfologia del territorio: infatti, nei testi medioevali latini la parola cuma indica un terreno in pendio, che digrada a fondo valle, proprio come quello dove si trova il sito archeologico di Monte Rinaldo.

Il portico del santuario di Monterinaldo
Il portico del santuario di Monterinaldo

Il santuario sorgeva su un ampio terrazzamento artificiale, sostenuto dall’imponente muro di fondo del porticato settentrionale, lungo 63,50 metri. Davanti all’imponente muro si sviluppava il portico, costituito da due file di colonne (porticus duplex), una di ordine tuscanico, l’altra di ordine dorico: insieme creavano il perfetto sfondo scenografico dell’area sacra.

Di fronte al porticato, si trovava il tempio, oggi visibile solo a livello delle fondamenta. Le strutture sono state interpretate come l’alzato della cella del tempio, con due alae laterali, o come i muri divisori di tre celle sul modello del tempio capitolino di Roma.

L’ingresso doveva trovarsi sul lato meridionale, dove si trova l’attuale ingresso al sito archeologico. Recenti indagini hanno portato alla luce le fondazioni di un’ala del porticato ad Est, che doveva chiudere il complesso da quel lato, così come si può supporre accadesse ad Ovest del tempio. Nelle immediate vicinanze, vi sono altre strutture murarie, a suddividere cinque piccoli ambienti, collegati ad un pozzo (ora non più visibile) tra il porticato Nord e il podio.

I reperti più antichi, come gli ex voto anatomici, sembrano testimoniare l’esistenza del sito già a partire dal III secolo a.C., ma la reale monumentalizzazione del santuario si ha a partire dalla metà del II a.C. fino al I a.C.: proprio in quel periodo il territorio Piceno entrava nell’orbita di conquista di Roma a seguito della battaglia di Sentino.

Il santuario perse gradualmente importanza a partire dal II d.C. fino al completo abbandono nel III d.C., a seguito di frane e smottamenti, che ne compromisero l’utilizzo. Il materiale di recupero fu dapprima utilizzato per la costruzione di una domus romana non distante dal sito. Successivamente, altri materiali furono riutilizzati per alcune costruzioni di Monte Rinaldo, come ad esempio l’ex chiesa del SS. Crocifisso, oggi Museo Civico Archeologico.

Il quesito più grande cui gli studiosi non sono riusciti (ancora) a dare una risposta soddisfacente, è a chi fosse dedicato il tempio. Le ipotesi più accreditate volgono lo sguardo verso Artemide o Giove, anche sulla base dei materiali ritrovati. Altri hanno parlato di una dedica alla dea Cupra, l’unica divinità picena di cui ci sia giunta notizia; ma l’accostamento, seppur suggestivo, non ha trovato dati di conferma.

L’unico elemento sicuro è che vi fosse un culto correlato all’acqua, elemento fondamentale in una società agricola. I pozzi e le canalizzazioni ritrovati provano che vi fosse una sorgente, ritenuta probabilmente curativa: i pellegrini del santuario venivano qui a lasciare i loro ex voto anatomici (e non solo) per chiedere alla divinità protettrice una sanatio, cioè la guarigione di una o più parti del corpo affette da una patologia.

La tipologia del santuario di Monte Rinaldo rientra nella serie di templi porticati tardo-ellenistici, costruiti in ambito extra-urbano, in zone considerate di confine, con funzione di demarcazione sacrale. Solo nell’Italia centrale sono numerosi gli esempi che attestano tale modello architettonico: il santuario di Giunone a Gabii, quello di Ercole Vincitore a Tivoli, quello di Esculapio a Fregellae e il santuario del Sannio di Pietrabbondante.

Il santuario di Monte Rinaldo, tra il mare Adriatico e i monti Sibillini, nel bel mezzo delle valli del fiume Aso e dell’Ete, non lontano dall’itinerario dell’antica via Salaria Gallica, è un fulgente esempio del fenomeno storico di “romanizzazione” nel Piceno, in cui le tradizioni italiche e il sincretismo romano hanno trovato una maestosa simbiosi.

Plastico tridimensionale del sito
Plastico tridimensionale del sito

Oggi l’area archeologica “La Cuma” di Monte Rinaldo fa parte del TAU (Teatri Antichi Uniti delle Marche): in estate funge da sfondo scenico per spettacoli teatrali e culturali unici per atmosfera.

Infine, suggeriamo la visione di un interessante videoclip, presente online su YouTube, della British Pathè, leggendaria agenzia britannica di cinegiornali storici, in cui si documenta l’inizio dello scavo in quella che oggi è l’Area Archeologica “La Cuma” di Monte Rinaldo (segui il link per visualizzare il video: https://m.youtube.com/watch?v=bzLP6jkZcVo).

Bibliografia essenziale:
Annibaldi G., Monterinaldo, in “Enciclopedia Arte Antica”, Supplemento, Roma 1973
Ciuccarelli M.R., Il santuario di Monte Rinaldo (Ascoli Piceno) e il suo territorio, Pisa 1999
Catani E., Il Santuario Ellenistico Romano presso Monterinaldo: Un’emergenza archeologica e monumentale dell’Ascolano, in “Il Piceno in età romana dalla sottomissione a Roma alla fine del mondo antico”, Atti del 3° Seminario di Studi per personale direttivo e docente della scuola (Cupra Marittima, 1991), Cupra Marittima 1992
Sisani S., Umbria Marche, Guide archeologiche Laterza, Roma-Bari 2006

Le origini del saltarello marchigiano

Il saltarello è un ballo tradizionale di corteggiamento del Centro Italia, diffuso in special modo nelle Marche, in Umbria, Lazio, Abruzzo e Molise. Sul finire del XVII secolo, il termine “saltarello” si è diffuso anche nelle regioni centro-settentrionali (Emilia Romagna, Veneto, Toscana), benché in realtà non indicasse il medesimo tipo di danza.

Ogni regione, ma possiamo dire ogni paese, aveva in passato una propria variante di saltarello. Non esiste dunque una coreografia uniformata: per lo più il saltarello si balla in coppia (uomo-donna, ma anche uomo-uomo o donna-donna), con rare forme di danza a quattro, in cerchio. È una danza veloce, in ritmo di 6/8 o 2/4.

Per meglio comprendere la storia di questo ballo, è doveroso fare una breve riflessione di carattere etimologico. “Saltarello” deriverebbe dalla parola latina saltatio, una danza sacra romana, che i sacerdoti Salii eseguivano durante determinate feste e occasioni importanti per la comunità.

Coperchio bronzeo piceno con rituale di danza
Coperchio bronzeo piceno con rito di fondazione proveniente da San Severino e conservato presso il Museo Archeologico Nazionale delle Marche

Le origini antichissime della saltatio sono provate dal fatto che i sacerdoti Salii, durante le loro esibizioni, indossassero dei costumi che rievocavano l’abbigliamento degli antichi guerrieri centro-italici dell’VIII a.C. Veri e propri “abiti fossili”, i costumi cerimoniali dei Salii comprendevano un elmo dal forte richiamo villanoviano, una spada corta e, addirittura, un kardiophylax, cioè una corazza per il petto, largamente in uso sia tra gli Etruschi (si veda la “tomba del Guerriero” di Tarquinia), sia tra i Piceni (basti pensare al guerriero di Capestrano).

I ritrovamenti archeologici nelle Marche testimoniano che i Piceni avessero un rituale di danza armata, con ogni probabilità precedente o quantomeno coeva, a quella in uso tra i Romani. Fra tutti, il famoso coperchio in bronzo proveniente da una tomba picena di Pitino, a San Severino Marche, ritrae quattro uomini armati dalla forte connotazione itifallica, che danzano in cerchio attorno ad un totem. I quattro guerrieri, vestiti di tutto punto con grandi elmi, lance e scudi, si stanno cimentando in quella che, con ogni probabilità, è una danza propiziatoria per un rito di passaggio: ognuno di loro esegue dei passi individuali differenti. Le braccia alzate indicano che stanno danzando in una particolarissima coreografia di gruppo.

Coperchio bronzeo piceno con rito di fondazione, conservato presso il Museo Archeologico Nazionale delle MarcheIn un altro coperchio bronzeo piceno (conservato anch’esso al Museo Archeologico Nazionale delle Marche), la scena rappresentata è ben più complessa: qui sembra esservi un’intera comunità impegnata nel rituale sacro della saltatio armata. Tutte le figure stilizzate sono state ritratte in atteggiamento di danza (con le braccia alzate), tranne una, intenta a condurre un aratro trainato da un toro. Ciò potrebbe indicare che siamo di fronte ad un rito di fondazione, un importante cerimoniale comunitario e sociale, dalla forte valenza sacrale.

Nelle bellicose popolazioni dell’Italia preromana, le danze di origine sacrale-militare debbono aver lasciato una profonda influenza nel popolo, secondo uno schema diffuso nel corso della storia, per cui elementi di origine religiosa sono stati “reinterpretati” nel mondo profano. Non è dunque un caso che i Romani chiamassero saltationes le danze di estrazione popolare. Con il tramonto dell’Impero, le testimonianze sulla danza si interrompono: l’Alto Medioevo tace sulle forme coreutiche in uso nella società. Le fonti iconografiche e scritte ricominciano ad essere copiose a partire dal XIV secolo.

Il primo documento noto riguardante il saltarello è il manoscritto Add. 29987, conservato al British Museum di Londra. Si tratta di un manoscritto toscano compilato fra il XIV e il XV secolo e appartenuto ai Medici. Contiene una miscellanea di brani musicali: madrigali, ballate, motetti e danze, fra cui alcuni saltarelli. Nel 1455, il celebre maestro di danza Antonio Cornazzano, nel suo trattato Libro dell’arte del danzare, descrive il saltarello come “ballo de villa” (danza rustica), contrapponendola alle danze aristocratiche.

Il saltarello si afferma come una delle quattro forme di danza di corte fino al XVI secolo, accanto alla bassadanza, alla quaternaria e alla piva. Solo tra il XVII e il XVIII secolo compaiono i primi documenti che lo attestano quale danza popolare. Non è chiaro come il saltarello “popolare” abbia influenzato il saltarello “di corte” e viceversa. Deve esservi stata una prolungata commistione fra le due forme: depurato dei suoi elementi più rustici, è diventato danza di corte. Non è escluso che alcuni elementi più aristocratici fossero poi riassorbiti dai danzatori popolari, come nella castellana, considerata una forma “urbana” di saltarello.

Dal XVII secolo il saltarello si afferma come la principale danza tradizionale del centro Italia. Le sue varianti locali sono ancora oggi conosciute e praticate, anche se durante il secolo scorso, a causa della progressiva industrializzazione, ha perso i suoi caratteri originari.

Frontespizio dei “Canti popolareschi piceni” (1940)

Le melodie del saltarello sono state a lungo tramandate oralmente. Gli studi etnomusicologi del secolo scorso hanno contribuito a preservarne la conoscenza: pionieristiche sono state le trascrizioni di Giovanni Ginobili, contenute nei volumetti dei Canti popolareschi piceni, redatti insieme al compositore maceratese Lino Liviabella.

 

Per quanto riguarda lo strumentario, il saltarello si esegue accompagnato da organetto e tamburello. In provincia di Fabriano, oltre al tipico organetto, sono presenti il violino e il violone, ma non il tamburello. Il saltarello costituisce, inoltre, la base melodica e metrico-ritmica di molti canti tradizionali, fra cui i canti a dispetto e alcuni canti di questua.

Tamburelli con sonagli e decorazioni, provenienti dalla zona del maceratase.
Tamburelli con sonagli e decorazioni, provenienti dalla zona del maceratase.

Non potremo mai dire con certezza quanto le saltationes antiche e il saltarello fossero coreograficamente vicini a quello odierno. Una linea di continuità tra le due forme di danza può essere rintracciata nell’intrinseca valenza religiosa, con elementi di chiara matrice erotica che richiamano i riti legati alla fertilità femminile e alla fecondità del mondo agreste. La commistione di elementi al limite tra sacro e profano è indubbiamente presente nel saltarello tradizionale e fa capo ad un patrimonio culturale senza tempo, da ricordare e da tramandare.

Il saltarello contiene ancora l’anima di chi vive nel Piceno: i suoi passi e le sue musiche non sono un semplice ballo, ma un modo di intendere la vita, di esorcizzare il male e di celebrare la pienezza che solo l’amore per la Natura può testimoniare. Ballare il saltarello è un modo per capire da dove veniamo, chi continuiamo ad essere, dove possiamo andare.

Ringraziamo l’attività Rocchetti Strumenti Musicali, per averci consentito di fotografare i tamburelli storici, le cui immagini sono contenute nell’articolo.

Bibliografia essenziale:
Bessone L. & Scuderi R., Manuale di Storia romana, Bologna, 1994.
Brelich A., Paides e Parthenoi, Roma, 1969.
Cirilli R., Les prêtres danseurs de Rome, Parigi, 1913.
Colacicchi L., v. Saltarello, in “Enciclopedia Italiana Treccani”, Roma, 1936.
Colombo G., Florio C., Alvaro S., Il cammino dell’uomo. Civiltà e cultura, Roma, 1991.
Torelli M., Riti di passaggio maschili di Roma arcaica, in “Mélanges de l’Ecole française de Rome”, vol. 102, n. 1, 1990, pp. 93-106.
Treccani online, voce “Antonio Cornazzano”, in “Dizionario biografico degli Italiani”; http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/, link consultato in data 27 agosto 2016, ore 15:00.

Nel quarantesimo della scomparsa di Giovanni Ginobili

Giovanni Ginobili, un’importante personalità da ricordare per i suoi preziosi studi sulle tradizioni popolari marchigiane.

Pitrió' mmia

Giovanni Ginobili - Pitrió’ mmia (1958)Oggi, 17 ottobre, ricorre il quarantesimo anniversario della scomparsa di Giovanni Ginobili (Petriolo, 24 gennaio 1892 – Macerata, 17 ottobre 1973), poeta vernacolare, folklorista e padre nobile dell’etnomusicologia moderna nelle Marche.

Il maestro Ginobili, Nannì de lu Cónde per i suoi concittadini, con occhio e orecchio già moderni per la sua epoca, ha dedicato con amore tutta la sua vita alla ricerca e alla conservazione della cultura della nostra terra attraverso una bibliografia sterminata di scritti che spesso e volentieri pubblicava in maniera autonoma.
Proprio per questo motivo gran parte del suo lavoro è purtroppo pressoché introvabile, ad esclusione di poche eccezioni come ad esempio l’edizione integrale del fondamentale “Glossario dei dialetti di Macerata e Petriolo”, pubblicata qualche anno or sono a cura di Stanislao Tamburri e Massimo Tamburrini con la collaborazione del Comune di Petriolo e del Gruppo Teatrale Ginobili.
Tra le sue opere troviamo anche una meravigliosa…

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