Piceni: i figli della Primavera Sacra

Le origini del popolo piceno restano avvolte ancora nel mistero. Secondo l’archeologo Pallottino, si può parlare di una civiltà medio-adriatica sviluppata, benché priva di “quel livello di strutture urbane e di espressioni architettoniche e figurative monumentali che vediamo imporsi con la colonizzazione greca nell’Italia meridionale e affermarsi nell’area tirrenica fin dal VII sec. a. C.”. I Piceni non hanno mai abbandonato il tipo di insediamento protostorico, benché avessero raggiunto forme raffinate d’arte scultorea e metallurgica, come testimoniato dai notevoli reperti scultorei e dai ricchi corredi tombali ritrovati.

I Piceni erano un popolo perfettamente conscio della propria posizione e della propria identità, posto all’interno di una fitta rete di scambi commerciali e culturali con il mondo greco, con il mondo etrusco e con le popolazioni di origine celtica del nord Europa.

Pallottini ipotizza che prima del IX secolo a. C. nell’Adriatico centrale fosse presente un gruppo etnico sostanzialmente unitario. Un indizio sarebbe da rintracciare nel nome etnico di Safini, attestato da un’iscrizione ritrovata in Abruzzo a Penna S. Andrea, nei pressi di Cermignano. Questi Safini non sarebbero stati altri che i Sabini gravitanti in area tirrenica ed i Sanniti, presenti nel sud Italia.

In Abruzzo, è certo che l’etnia sabina fosse suddivisa in varie tribù: Frentani, Maruccini, Vestini, Pretuzi, stanziati fra il Gargano e il fiume Helvinum, quest’ultimo identificabile con il torrente Acquarossa, fra Grottammare e Cupra Marittima. Anche a nord dell’Helvinum, possiamo ipotizzare che esistessero varie tribù, anche se non vi sono evidenze archeologiche che provano ciò.

Ora, possiamo supporre che in un dato momento la tribù dei Picentes o Pikenoi abbia prevalso sulle altre, fino a dare il nome alla regione compresa fra l’Aterno e l’Esino. Pallottini tiene a precisare che a nord dell’Esino non si può parlare né di Piceno né di Piceni, definendo “erronea” la “distinzione proposta dai linguisti fra iscrizioni sud picene […] e nord picene per i testi di Novilara, la cui origine resta a tutt’oggi poco chiara”. La cultura di Novilara deve essere considerata antecedente ai Piceni e va messa in rapporto con la presenza di gruppi allogeni, di varia provenienza. Non dimentichiamo che in epoca protostorica il Mediteranneo era un crocevia di popoli, che praticavano intensamente il commercio marittimo. Si può ipotizzare che i vari gruppi etnici impiantassero empori e basi di scalo, lungo le rotte marittime costiere.

Giusto per far capire quale incredibile crogiolo di etnie fossero le Marche dell’epoca protostorica, basti pensare che la tradizione storiografica greca parla di Ombrici (Umbri) stanziati a nord del Conero. Questi avevano fondato un santuario dedicato a Diomede, di cui erano devoti. Gli Umbri avrebbero abitato il nord delle Marche nello stesso periodo dei Piceni, e sarebbero stati preceduti dai Siculi, poi fondatori di Ancona e Numana.

Numerose fonti antiche fanno risalire l’etimo del termine “Piceni” al picus, il picchio, o alla pica, l’ambra. La tradizione del picchio è riportata da Tito Livio (Ab Urbe Condita, lib. XXXIV) e continua in Plinio il Vecchio. Da tali fonti, si evincerebbe che i Piceni avessero avuto origine dalla migrazione di una tribù Sabina, durante il rito della Primavera Sacra: «Orti sunt a Sabinis voto vere sacro ( Nat. Hist. III 13, 18)».

Secondo le fonti, durante la Primavera Sacra, tutti i primogeniti di uomini e animali erano sacrificati alle dinività ctonie. Questo rito cruento si ammorbidì nel tempo e fu sostituito con la migrazione coatta: i nati in primavera venivano espulsi dal villaggio d’origine. Non si può escludere un fondo di verità: l’aumento demografico imponeva la migrazione, che veniva giustificata a livello cultuale.

Paolo Diacono, nell’VIII secolo d. C.,  riassunse in epitome il De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo (II secolo d. C.), che a sua volta costituiva un compendio del poderoso De verborum significatu di  Verrio Flacco, insigne grammatico di età augestea. In  Paul. Fest. P. 234 Lindsay, s. v. Picena Regio, leggiamo infatti: «Picena Regio, in qua est Asculum, dicta, quod Sabini cum Asculum proficiscerent, in vexillo eorum picus consederat». A Paolo Diacono fanno riferimento altre testimonianze simili, fra cui quella di Isidoro di Siviglia, che scrive nelle Etymologiae: «Picena regio, ubi est Asculum, a Sabinis est appellata quod inde vere sacro nati cum Asculum proficiscerentur, in vexillo eorum picus consederat».

Il termine vexillum farebbe pensare ad una migrazione di carattere militare. Forse, il picchio di cui parlano le fonti era animale sacro a Marte, dio della guerra. In Dionisio di Alicarnasso (1,14, 5), è riportata una notizia risalente a Varrone: nel santuario di Tiora Matiena, a 300 stadi da Rieti sulla via per Lista, esisteva un antichissimo oracolo sacro a Marte, paragonabile a quello di Dodona, in cui un picchio vaticinava su un palo. Le fonti non lo possono assicurare, ma è possibile che proprio da qui partì il ver sacrum verso Ascoli, attraverso Montereale e Amatrice.

Mappa dei ritrovamenti piceni nelle Marche

I Picenti sarebbero stati alleati dei Romani fino al 299 a.C. in funzione anti-Pretuzi, situati sotto all’Helvinum. I Romani puntarono verso l’Adriatico, cercando di dominare prima i Pretuzi, fondando probabilmente nel 289 Hatria, a sud di Teramo. Ad Hatria arrivava probabilmente la via Caecilia, la prima via publica, che collegava Roma all’Adriatico attraverso la valle del Vomano, percorsa già dai Sabini di Penna Sant’Andrea.

Mappa dei ritrovamenti piceni

Bibliografia essenziale:
AA.VV., I Piceni popolo d’Europa, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 3-13.
Pallottino Massimo, “La civiltà picena”. Un’impostazione storica, in La civiltà picena nelle Marche. Studi in onore di Giovanni Annibaldi, atti del Convegno sulla Civiltà Piacena nelle Marche, 10-13 luglio 1988,  Maroni, Ancona 1988.

Pio Panfili

Forse non tutti sanno che gli artisti marchigiani – fermani in particolare – eccelsero nella realizzazione del finto marmo e degli effetti illusionistici, così comuni nelle chiese barocche . Dal tempo della Controriforma, marmi e stucchi diventavano una spesa troppo costosa, che poteva essere tranquillamente sostituita con la maestria dei pittori.

Uno dei più noti esponenti di questo genere fu Pio Panfili (1723-1812): Nato a Porto San Giorgio nel 1723, fu attivo nelle Marche e soprattutto a Fermo. Qui realizzò gli effetti prospettici e illusionistici delle volte e della cupola della cattedrale cittadina (1787). Sempre a Fermo, dipinse le pitture prospettiche della sala consiliare del palazzo comunale (1760).

Nel territorio, sono da citare i suoi lavori presso l’atrio del palazzo comunale e della scala monumentale del municipio di Montegiorgio.

Oltre che nelle Marche, il Panfili operò a Bologna, dove si distinse come incisore e disegnatore di vedute cittadine. Operò presso lo stampatore Della Volpe, per pubblicazioni artistiche. Tra queste, citiamo: La regola di Vignola, L’architettura dell’Alberti, Claustro di San Michele in Bosco dello Zanotti, il Diario bolognese ecclesiastico e civile dal 1770 al 1796. Sue opere sono presenti anche nella Biblioteca dell’Archiginnasio, nella Pinacoteca Nazionale e nel Museo Civico.

La sua fama in patria fu notevole, se ancora a pochi decenni orsono, si poteva udire per le strade sangiorgesi la nota “filastrocca”:
Pio Panfili portese pittore
pitte pitture per poco prezzo
prete porco puzzone pagame presto.

Bibliografia essenziale:
Dizionario storico-biografico dei marchigiani, Il lavoro editoriale 1993, tomo II, p 108.

Una terra, un vino, un popolo. Le origini della viticoltura nel Piceno (parte seconda)

Veniamo dunque al Piceno. Sempre nell’VIII secolo a.C., sul versante Adriatico fra Marche e Abruzzo, i Piceni hanno avviato la produzione e commercializzazione del vino, allevando vitigni selvatici. A Matelica, negli scavi di Villa Clara, gli archeologi hanno ritrovato tracce di circa duecento vinaccioli, nella tomba di un ricco principe piceno vissuto nel VII secolo a.C.

Verosimilmente, la vicinanza geografica con gli Etruschi ha influenzato profondamente la viticoltura dei Piceni, sia per le tecniche che per l‘adozione di vitigni non selvatici. I Piceni praticavano probabilmente una viticultura a paletto, che doveva essere maggiormente diffusa nella regione compresa fra il fiume Metauro (a nord) e il fiume Tronto (a sud). Non sembra essere un caso che questa stessa area corrisponda, grosso modo, all’area di produzione del Rosso Piceno (o Piceno). Quest’area coincide anche con quella che a livello di dati archeologici ci ha restituito più reperti, attestando una frequentazione picena pressoché continuativa a partire dal IX a.C. Nella cartina sottostante, possiamo vedere la suddivisione della regione Marche per aree di produzione vinicola ed i siti di rilevanza archeologica. Abbiamo segnato con dei puntini i siti di maggiore interesse, con le testimonianze archeologiche picene certe. Oggi, l’area di produzione del Rosso Piceno è stata stabilita per legge dal Disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di Origine Controllata (DPR 11.08.1968 G.U. 245 – 26.09.1968). In particolare, troviamo la maggiore espressione del vino Piceno tra le province di Ascoli Piceno e Fermo.

Nella vasta area marchigiana di coltivazione della vite vi è una zona più ristretta, che presenta delle differenze non solo a livello culturale, storico e archeologico, ma anche a livello di tecnica colturale. In una porzione dell’attuale provincia di Ancona, il vino che secondo il Disciplinare odierno si produce è diverso dal Rosso Piceno ed è denominato Rosso Conero. L’area del Rosso Conero, che appare come una sorta di “enclave vitivinicola” nelle terre del Rosso Piceno, è la stessa area che fu sotto il diretto influsso dei coloni greci di Ancona.
L’emporion di Ankòn, fondato nel 387 a.C. da esuli siracusani di stirpe dorica, influenzò non solo i commerci del Piceno verso l’esterno, ma anche il territorio dell’entroterra marchigiano: i coloni magno-greci importarono in quest’area la tecnica “ad alberello”, che ancora oggi caratterizza una parte della produzione del Rosso Conero (si veda ad esempio la cantina Umani Ronchi nell’osimano). Va ricordato, poi, che tale forma di coltivazione è ancora largamente praticata nelle isole greche, fatto che testimonia una profonda continuità storica.

Si può ipotizzare che le cultivar più utilizzate in queste zone fossero le stesse che sono utilizzate ancora oggi per la produzione dei vini rossi, quali il vitigno autoctono del Montepulciano e il Sangiovese (la cui origine è ancora molto dibattuta). I vini di Ancona dovevano indubbiamente essere di assoluto pregio: l’infaticabile Plinio il Vecchio, sempre nella sua Naturalis Historia, non lesinò sugli elogi tributati al vino “Pretoriano” del versante adriatico. Anche il celeberrimo cuoco Marco Gavio Apicio parlò nelle sue ricette del vino di Ancona (anconetanum).

Mappa vino e arche
Mappa della regione Marche con aree di produzioni vitivinicole DOC e DOCG e siti dei ritrovamenti archeologici piceni.

In Italia, i coloni greci riuscirono a trasformare il vino da semplice prodotto alimentare a merce di scambio, diffondendo anche il culto di Dioniso, il dio del vino e dell’ebbrezza. Gli stessi Etruschi ebbero una divinità omologa, Fufluns e, come i Greci, svilupparono un proprio rituale legato al vino. Potremmo, perciò, ipotizzare che anche i Piceni imitarono i loro vicini, imparando a sfruttare l’enorme potenziale vitivinicolo e commerciale delle loro terre. Verosimilmente, aspetti sociali ed economici assunsero una valenza cultuale, come può desumersi dalle forme ceramiche tipiche esclusive di quest’area.

(Clicca qui per leggere la prima parte)

Bibliografia essenziale:
AA. VV., Il vino in Italia, Milano 2015
Blakeway A., Prolegomena to the Study of Greek Commerce with Italy, Sicily and France in the Eight and Seventh Centuries, in «The Annual of British School of Athens», 33, pp. 170-208
Bianchi Bandinelli R., Torelli M., L’arte dell’antichità classica, Torino, 2010
Buono R., Vallariello G., Introduzione e diffusione della vite (Vitis vinifera L.) in Italia, in “Delpinoa”44, 2002, pp. 39-51
Cerchiai L., Il programma figurativo dell’Hydria Ricci, in «Antike Kunst», 38, H. 2 1995, pp. 81-91
Gambari F. M., I celti e il vino, Biella, 1998
Forni G., Quando e come sorse la viticoltura in Italia, in «Archeologia della vite e del vino in Etruria», a cura di A. Ciacci, P. Rendini, A. Zifferero, pp. 69-81, Siena 2007
Torelli M., Gli Etruschi, Milano, 2000
Unwin T., Storia del vino: geografie, culture e miti dall’antichità ai giorni nostri, Roma, 1996

Una terra, un vino, un popolo. Le origini della viticoltura nel Piceno (parte prima)

Il vino è una bevanda essenziale nella nostra cultura e da sempre ha rivestito un’importanza centrale. Ancora nel mondo contadino fino a pochi decenni fa, la vendemmia costituiva un rito, nel quale confluiva una complessa e profonda simbologia. Cerchiamo di ripercorrere le origini della viticoltura nella nostra terra: il Piceno.

Il vino è ed è stato uno dei simboli sociali più importanti per la storia dei popoli del Mediterraneo. Gli archeologi hanno datato addirittura al 5100 a.C. il primo rinvenimento di una giara, contenente i resti di una bevanda che può essere considerata l’antenata del nostro vino.

Tracce di proto-stabilimenti vinicoli sono attestate in Armenia, nella città di Areni, ed in Turchia, alle pendici del Tauros. Da queste aree, la coltivazione della vite si è verosimilmente diffusa in tutto il Medio Oriente: il Monte Ararat, la Mesopotamia e l’Egitto sono le prime regioni dove la vite è stata allevata per la produzione della preziosa bevanda. Non è un caso che nell’epopea sumera di Gilgamesh (Tavola IX), nella Bibbia (Genesi 9, 20-27) e nel mito egiziano di Osiride, la vendemmia costituisca un tema rilevante.

Andando avanti nel tempo, la viticoltura è stata esportata in tutto il Mediterraneo, grazie a popoli dediti al commercio e alla navigazione: i Micenei l’hanno importata in Grecia, i Fenici nelle colonie. Ciò è accaduto grosso modo fra la seconda metà del II millennio a.C. e l’inizio del I millennio a.C.

Il poeta greco Esiodo (VIII secolo a. C.) ci ha lasciato una descrizione molto precisa d’una tecnica di allevamento e vinificazione:

«Quando poi Orione e Sirio sono giunti a mezzo del cielo, e Aurora dalle dita di rosa riesce a vedere Arturo, allora, o Perse, raccogli tutti i grappoli d’uva e portali a casa; esponili al sole per dieci giorni e dieci notti; quindi per cinque giorni lasciali all’ombra, ed al sesto versa nei recipienti il dono di Dioniso ricco di letizie» (Le opere e i giorni, vv. 609-617).

In particolare, in questo passo Esiodo si riferisce ad una tecnica di vinificazione tipica della Beozia, che ricorda molto da vicino la produzione dell’odierno passito.

Il vino ha ricoperto un ruolo così centrale nella cultura dell’antica Grecia che anche gli ecisti (i capi scelti per le spedizioni delle colonizzazioni) portavano dalla madrepatria tralci di uva da impiantare nelle nuove colonie. Così, attorno all’VIII secolo a. C., i Greci importarono anche in Italia i loro vitigni. I Greci utilizzavano un tipo di coltivazione detta “ad alberello”: senza sostegni o con paletti semplici. Nell’Antichità, tale tecnica è descritta accuratamente da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (I secolo a.C.).

La viticoltura italica di matrice greca è attestata figurativamente nella produzione di ceramiche decorate, che intorno al VI secolo a. C. prendono forme e nomi sempre più specifici, in relazione alla loro funzione. È interessante notare che gli storici dell’antica Grecia per lungo tempo hanno chiamato l’Italia con il nome di Enotria, ovvero la terra abitata dagli Enotri”, popolo del Sud Italia così chiamato in onore del loro capostipite: Enotro. Il nome Enotro deriverebbe, a sua volta, dal termine greco oinotron, cioè “palo da vigna”. Ciò confermerebbe il fatto che le popolazioni italiche possedessero una tecnica autoctona di viticoltura (con sostegno), ben diffusa nell’Italia meridionale. Il sostegno poteva essere costituito da un palo o dal tronco di un’altra specie arborea, come l’olmo o il leccio: si parla in tal caso di vite maritata.  L’uso del palo in vigna caratterizzerebbe tutti i popoli italici preromani, a differenza dei Greci.

Hydria Ricci
Scena di viticoltura: particolare dell’hydria Ricci (VII sec. a. C.), conservata a Roma nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

In Italia, prima dell’arrivo dei Greci, la vite era già coltivata, anche se solo nella sua specie selvatica. Sin dall’VIII a.C., nella Valdarno, gli Etruschi si servivano del frutto della vitis vinifera sylvestris, cioè la forma selvatica della vitis vinifera sativa, diffusasi attraverso la mediazione greca. Ben presto gli Etruschi si resero conto che l’addomesticamento della vite era essenziale per migliorare la resa della pianta. Per tale motivo, ne adottarono la coltivazione, attraverso tecniche più adatte ai loro climi e alle loro terre. Così, mentre nella Magna Grecia i coloni diffondevano la viticoltura ad alberello, nell’Italia centro-settentrionale gli Etruschi sviluppavano la viticoltura con sostegno. All’area della loro massima espansione coincide la diffusione della coltivazione della vite a sostegno vivo, sia in Campania che nell’Italia centro-settentrionale.

Molti studiosi hanno parlato di una sorta di “frontiera nascosta” in Campania, tra gli Etruschi di Capua e i Calcidesi di Cuma, che potrebbe essere geograficamente identificata con il corso del fiume Sele.

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Augusto Murri

Ritratto di Augusto Murri
Ritratto di Augusto Murri

Nato a Fermo l’8 settembre 1841, fu medico e clinico di fama internazionale. Laureatosi a Firenze nel 1864, si perfezionò a Parigi e Berlino.

Nel 1870 divenne assistente del Baccelli a Roma; quindi, nel 1875 fu inviato a Bologna, dove divenne docente di clinica medica, ruolo che ricoprì per quarant’anni, fino al 1916. Morì a Bologna l’11 novembre nel 1932.

Fu docente di grande fama, chiamato “il sommo dei clinici”. I suoi scritti ebbero vasta circolazione e furono tradotti in varie lingue. Fra i suoi studi ricordiamo: Teoria della febbre, Meccanismo di compenso fisiopatologico del cuore, Saggio sulle perizie medico legali, Lezioni di clinica medica. Importanti anche le ricerche sulle malattie cerebrali, in particolare sui tumori intracranici, sulle affezioni sifilitiche del cervello, sull’ascesso cerebrale cronico.

Murri fu anche deputato parlamentare e consigliere superiore della pubblica istruzione. A Fermo, gli è intitolato l’Ospedale Civile, che ha sede nell’omonima via.

Bibliografia essenziale:
Dizionario storico-biografico dei marchigiani, Il lavoro editoriale, 1993, tomo II.