L’Anice verde delle Marche, l’anisetta e il mistrà

Immaginate di camminare tra i vigneti delle Marche, con il profumo del mare che si mescola all’aroma intenso dell’anice verde. Sentite il profumo dolce e speziato che riempie l’aria, mentre la luce del sole scende sui campi bianco verdi. C’è una storia speciale qui, una storia che risale al XIX secolo, quando Francesco Olivieri di Porto San Giorgio distillò un liquore che sarebbe diventato una delizia. Si tratta dell’anisetta, o meglio dell’Anisina Olivieri, un liquore ricavato dalla distillazione del vino in alcol, combinato con i semi di anice.

La Ditta Francesco Olivieri fu la prima nel 1830 ad iniziare l’abile distillazione del liquore all’anice.
In seguito, i distillatori ascolani Rosati e Meletti esaltarono al meglio il sapore unico dell’anice verde che cresceva abbondante nella regione, in special modo a Castignano. Anche a Sant’Elpidio a Mare, la ditta Evangelisti fu tra le distillerie più note.

In passato, l’anice verde era tra gli ingredienti più indispensabili per la farmacologia, la profumeria e la cosmesi. Ritenuto (e a buon diritto) dai monaci un ottimo digestivo e diuretico, nella cucina popolare e aristocratica entra dalla porta della pasticceria. Si distingue per il suo sapore fresco che ricorda la liquirizia e il finocchio. Tra il ‘600 e il ‘700, la direttrice di commercio principale fu quella dell’Adriatico, sotto il dominio dei mercanti della Serenissima. Dapprima lo importarono dalla Grecia e dalla Turchia e poi iniziarono ad esportarlo dalla Romagna. Nel Piceno, seppure le condizioni pedologiche e climatiche fossero molto favorevoli, la coltura dell’anice rimase poco significativa. I mezzadri di quest’area preferivano piantare foraggi e cereali, dalla resa più sicura e di immediato utilizzo. L’anice, non essendo  in alcun modo “funzionale” al podere mezzadrile, rimase una coltura marginale fino alla metà dell’Ottocento. Fu in questo secolo che l’industria liquoristica diede slancio a questo tipo di coltivazione, sotto la diretta cura dei mastri distillatori. Non è un caso, insomma, che oggi ci si un presidio Slow food per l’anice verde di Castignano.

La ricetta della famiglia Meletti è rimasta invariata nel tempo, rispettando la tradizione e l’arte della distillazione. L’Anisetta Meletti è nota per il suo sapore unico e inconfondibile, un mix perfetto di dolcezza e speziato che la rende unica.

Accanto a questi liquori aristocratici e di salotto, vi è la versione popolare dell’anisetta, quella più “maschia”, il mistrà. Le famiglie coloniche dell’Ottocento, avendo a questo punto a disposizione questa spezia, iniziarono ad utilizzarla per aromatizzare i distillati dai vini di risulta o di scarto. In un colpo solo, i meno abbienti trovarono la possibilità di salvare un prodotto ormai “scaduto” e di avere una bevanda alcolica energizzante a bassissimo costo.

Un erborista dell’alto maceratese, per l’esattezza di Pievebovigliana, decise di iniziare a commercializzare il suo mistrà, l’Anice Secco Varnelli.
La principale differenza tra un’Anisetta e un Anice Varnelli è il grado di dolcezza e la gradazione alcolica. La prima più amabile e femminile con una gradazione che non supera i 35% vol., il secondo un liquore dal gusto secco e deciso e con una gradazione superiore ai 45% vol.

Le Marche, con la loro affascinante tradizione di distillazione dell’anice, hanno dato vita a una varietà di liquori unici. Dall’Anisina Olivieri all’Anisetta Meletti, dal mistrà all’Anice Varnelli, ogni liquore ha il suo carattere distintivo, offrendo una gamma di gusti e profumi per soddisfare ogni palato. Questi liquori raccontano una storia di passione e maestria nella distillazione, preservando antiche ricette e tradizioni. Che si tratti di un’esperienza dolce e delicata o di un gusto secco e deciso, c’è un liquore marchigiano per tutti coloro che apprezzano l’eccellenza artigianale e la ricchezza dei sapori locali. 

Bibliografia di Riferimento: 

Gobbi O., L’anice per la liquoristica nel Piceno, 2013
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Anisetta_Evangelisti.jpg TIPPITICC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

https://www.anisettarosati.com/
https://www.meletti.it/ 
https://www.varnelli.it/it

In evidenza

Le vie fluviali nell’Antichità

Le colline delle Marche sono solcate dalle valli dei fiumi che percorrono da ovest verso est la nostra regione. Le fonti antiche ci riportano almeno 12 nomi latini di fiumi: Isaurus, Metaurus, Suasanus, Sena, Aesis, Misco, Flosis, Flusor, Tinna, Asis, Tessuinum, Truentus.  Ad essi vanno aggiunti gli innumerevoli affluenti e  torrenti che costellano le vallate marchigiane. Temibili in occasioni di precipitazioni eccezionali, nella maggior parte dei casi sono poco più che torrenti, tanto che a volte chiamarli fiumi sembra quasi un’esagerazione. I racconti dei nonni, però, svelano un passato meno misero, quando i bambini dovevano essere presi sulle spalle dagli adulti per guadare il fiume, o quando gli adolescenti trascorrevano interi pomeriggi a tuffarsi e giocare in acqua. 

Se già il passato recente svela un perduto rapporto dell’uomo con la realtà idrografica del territorio, viene da chiedersi cosa potessero rappresentare i fiumi in epoca più remota, fino all’epoca preromana. Così come in molte altre aree della penisola, è verosimile pensare che molti di questi fiumi fossero navigabili e fossero delle vere e proprie forze motrici delle attività economiche locali.

Siamo abituati ad esaltare la prodigiosa rete viaria d’epoca romana, i cui itinerari sono ancora oggi in uso, ma dimentichiamo che strade terrestri e strade fluviali costituivano un unico sistema di vie di comunicazione. I fiumi erano delle vere e proprie autostrade dell’antichità. 

Non è un caso che molti dei più importanti centri antichi sorgessero sulle sponde di fiumi, dove gli abitanti potevano non soltanto approvvigionarsi di acqua potabile, ma anche scaricare i rifiuti urbani e trasportare più velocemente le merci. Roma stessa godeva di un porto fluviale sull’isola Tiberina, prima ancora dello sviluppo di Ostia e del suo porto marittimo; e non mancano tracce archeologiche di altri porti fluviali lungo il percorso del Tevere, il più noto dei quali è forse quello di Stifone, in Umbria, presso la Mole di Narni. Parimenti i rari, ma non unici, ritrovamenti di piroghe lignee d’epoca preromana, testimoniano quanto fosse sviluppata nell’antichità la navigazione delle acque interne. Il Lago di Bolsena ne ha restituito un esemplare in splendide condizioni, oggi conservato al Museo della Navigazione delle Acque Interne a Capodimonte.

Focalizzando la nostra attenzione sul Piceno, anche i fiumi Chienti, Tenna, Aso, Ete Vivo e Tronto sin dall’epoca preistorica erano navigabili e furono delle vie di comunicazione imprescindibili per gli spostamenti e soprattutto per i commerci in queste vallate. Le foci di questi fiumi erano dotate di approdi marittimi, da cui partivano o arrivavano le merci dagli empori marittimi del Mediteranneo – come testimoniano bene i ritrovamenti anforici nell’entroterra. Oltre, dunque, ai porti marittimi situati lungo la costa, come il Castellum Firmanorum (l’attuale Porto San Giorgio), Cluana, Cupra Maritima, Castrum Truentinum, possiamo affermare che esistessero una serie di attracchi e porti fluviali situati nelle località interne, i quali formavano una fitta ed efficiente rete di trasporto sin dall’epoca pre-romana

Un luogo di attracco di epoca romana è stato rinvenuto in località Casabianca di Fermo, nei pressi della foce del fiume Tenna, dove poco lontano è stato rinvenuto un magazzino di anfore. Un altro attracco portuale doveva trovarsi a ridosso della foce del fiume Ete Vivo, nell’attuale località di Salvano di Fermo. È importante ricordare come in epoca antica la linea di costa fosse più arretrata rispetto ai nostri giorni. 

Con l’arrivo dei Romani si avvia una stagione tra le più floride per l’area compresa tra il fiume Tenna e la valle dell’Aso. Non solo si ha la fondazione di ben due colonie romane (Firmum Picenum e Falerio Picenus), ma anche lo stanziamento della flotta romana nell’Adriatico, che assicurava una navigazione marittima più sicura. In questa epoca, le vie di comunicazione di terra raggiunsero uno sviluppo eccezionale. Si può ragionevolmente pensare che l’imponente sistema viario romano abbia dirottato su strada una parte delle merci che precedentemente viaggiava preferibilmente o esclusivamente per via fluviale, integrando il trasporto fluviale all’interno di un sistema più complesso. 

Quando però, nei primi secoli del Medioevo, cessò la manutenzione delle strade, il fiume tornò a rivestire un ruolo centrale per i commerci:  si pensi al sito di Ripa Bianca di Jesi, dove sono state trovati i resti di un attracco fluviale del XVII secolo, o i siti del Fosso di Cugnolo e del Fosso di San Biagio in località Torre di Palme (FM), dove le attività di cabotaggio sono testimoniate dal XVIII secolo in poi. Oppure le attività di porto del Lido di San Tommaso di Fermo, citate nelle carte nautiche dal XIV secolo in avanti.

In un tempo su cui incombe lo spettro della siccità e del cambiamento climatico, riconsiderare la cura che nel passato fu dedicato alle risorse idriche e fluviali (con tutte le sue implicazioni culturali e cultuali), può essere uno stimolo per ridefinire il nostro rapporto con questo vitale elemento della natura, il più prezioso: l’acqua.
Non nostalgia del passato, ma continuità attraverso le epoche

Bibliografia essenziale:
Emilio Barillaro, Fiumi navigabili nella Locride antica, San Giovanni di Gerace, 1973.

Simonetta Menchelli, Firmum Picenum: città, territorio e sistema portuale, Roma, 2005

Simonetta Menchelli, I depositi di anfore lungo il litorale fermano: nuovi dati per la produzione ed il commercio del vino piceno, disponibile sul portale Fastionline al seguente link: http://www.fastionline.org/docs/FOLDER-it-2009-132.pdf

Teodoro Monticelli, Sull’origine delle acque del Sebeto, Napoli, 1840

Gianfranco Paci, Medio-Adriatico Occidentale e commerci transmarini (II secolo a.C. – II secolo d.C.), Roma, 2001

https://www.beniculturali.it/luogo/museo-della-navigazione-nelle-acque-interne