Offida, Santa Maria della Rocca

Ci sono molte cose che vale la pena fare nella vita. Una di queste è visitare la splendida città di Offida, situata nel cuore del Piceno. Chi va a Offida non può non recarsi a Santa Maria della Rocca, che si staglia solitaria sulla rocca della città, a strapiombo sulla campagna circostante tutta coltivata a vigneti.

La vista della chiesa provenendo dal centro della città

CENNI STORICI
La chiesa esisteva già nel 1039 quando Longino d’Azone, signore di Offida di origine franca o germanica, donò gran parte dei suoi possedimenti all’Abbazia di Farfa, compreso il castello di Offida e la chiesa esistente di Santa Maria della Rocca.

La chiesa di Santa Maria fu in parte demolita quando i monaci decisero di riedificarla nel 1330. La nuova chiesa fu ampliata: fra i muri vecchi e i nuovi furono ricavate due intercapedini, una delle quali usata come cimitero.

Ossario ricavato nell’intercapedine dei muri

A sud costruirono un monastero, demolito alla fine del XVIII secolo. Il materiale fu reimpiegato per la costruzione della Collegiata della città.

Nel XVI secolo fu completato il piano superiore, forse per usare il sotterraneo interamente come cimitero, a seguito della pestilenza del 1511. L’accesso al piano inferiore fu murato. Nel 1562, gli offidani ottennero da Ranuccio Farnese  – abate feudatario di Farfa – la soppressione dell’ordine dei monaci farfensi di Santa Maria. Fu creato un collegio canonicale composta da 18 sacerdoti e si stabilì che il priore dovesse essere un monaco di Offida.

CRIPTA
Il visitatore che proviene da est vede per prima cosa l’abside e l’ingresso alla cripta cui si accede attraverso una scalinata e un portale scolpito del XIV secolo, decorato con foglie e figure di animali.

Nell’abside centrale vi sono dipinti attribuiti al Maestro di Offida. In entrambi i lati dell’emiciclo ci sono due cappelle poligonali con 2 altari. L’altare della cappella di sinistra presenta un canaletto che fa pensare al riuso di un antico altare pagano.

La chiesa originaria al piano inferiore

Proseguendo e salendo tre gradini si accede a quella che era la chiesa originaria, divisa in tre parti da due file di colonne e due di semicolonne. Si notano facilmente le intercapedini createsi con l’ampliamento della Chiesa in una delle quali è possibile vedere ancora delle ossa.

PIANO SUPERIORE
Il piano superiore è a croce latina. Il transetto è appena pronunciato cosicché la chiesa pare ad unica navata.

Il piano superiore

Sulle pareti rimangono importanti resti della decorazione ad affresco, fra cui La sepoltura di Gesù, La crocifissione, La fuga in Egitto del Maestro di Offida. Sulla parete Nord vi è una statua lignea del XVI secolo raffigurante San Benedetto da Norcia e, sempre sullo stesso lato, La Madonna del latte con San Sebastiano, affresco di fra Marino Angeli del secolo XV.

La facciata della chiesa verso ovest

 

La facciata principale è posta sul lato ovest: resta quindi celata alla vista del visitatore che viene da est. Il portale è sovrastato da un bellissimo rosone in legno di quercia. 

Per visitare la chiesa consultare il sito www.turismoffida.com o chiamare il 334 1547890.

La battaglia di Sentino, un conflitto multietnico nell’Italia del IV secolo a.C.

Resta d’attualità parlare della struttura multietnica dell’Italia di ieri, in un’epoca – oggi – in cui il diverso non dovrebbe fare più paura.

Alla metà del IV secolo a. C., da nord a sud lo Stivale era una variopinta fantasia di popolazioni ed etnie.

I Liguri erano stanziati nell’attuale Liguria, nelle Alpi Apuane e in buona parte del Piemonte. Gli Etruschi abitavano l’attuale Toscana e alto Lazio; le tribù galliche occupavano la Pianura Padana fino alle Marche settentrionali.
Sull’Appennino, dal Centro al Sud, convivevano più o meno pacificamente Umbri, Marsi, Peligni, Sanniti e Campani. Sulle coste dell’Adriatico centrale abitavano Piceni, Pretuzi, Frentani, Vestini e Marruccini. Più a sud, nell’attuale Puglia, si trovavano gli Iapigi.
Lungo le coste siciliane e sarde vi erano insediamenti cartaginesi e i Sardi, per ripararsi dalle scorribande dei Popoli del mare, vivevano nel cuore della Sardegna. Da Ancona a Reggio Calabria, infine, vi erano numerosi insediamenti greci, alcuni dei quali molto fiorenti, come Taranto e Siracusa.

Roma, in questa Babele di tribù e gruppi etnici, cresceva rapidamente: a seguito della conquista di Veio e della supremazia sulle altre città latine, iniziava a destare la preoccupazione di Sabini, Ernici, Aurunci, Equi e Volsci.
I Romani, infatti, assieme ai Sanniti, erano il gruppo etnico militarmente più potente. Fra i due ben presto cominciò a soffiare un vento caldo d’ostilità. Difficile ricostruire dal punto di vista storiografico il complesso quadro dello scontro fra i due, perché troppo lacunose e ambigue sono le testimonianze che ci sono state tramandate dagli storici. Quello che è certo è che i due popoli stipularono un accordo nel 354 a.C.: il fiume Liri era riconosciuto come confine naturale fra i rispettivi territori.

La pace, però, non poteva durare a lungo: i Romani, accerchiati da popoli stranieri si sentivano minacciati, tanto più che Etruschi, Galli, Umbri, Sabini e Sanniti decisero di allearsi in una Lega.

Roma rispose alla provocazione cercando alleanze presso alcuni popoli che vivevano lungo la costa adriatica: Peligni, Maruccini,  Frentani e Piceni (quest’ultimi preoccupati della discesa dei Galli). L’idea centrale della strategia romana era contro-accerchiare i Sanniti.
Il pretesto per la ripresa delle ostilità arrivò nel 350 a. C.: i Sanniti attaccarono i Campani, i quali chiesero aiuti militari ai Romani. La guerra che ne scaturì terminò due anni dopo, con il ristabilimento del precedente trattato.

Poi le ostilità fra Romani e Sanniti ripresero nel 341 e si protrassero fino al 304: guerra fatta di alleanze con città ostili agli uni o agli altri. Alcune città si spaccarono politicamente a metà, fra fazioni filoromane e fazioni filosannite. Napoli fu il caso più emblematico: la componente greca era apertamente filoromana, quella osca filosannita.

Ancora una volta le ostilità finirono con un trattato politico che non portò nessun risultato stabile.

Nel 302 a. C., dopo essersi alleati con i Lucani (“imparentati” con i Sanniti), i Romani invasero il territorio etrusco. Erano preoccupati dal fatto che popoli tradizionalmente invisi gli uni agli altri –  come Sanniti, Galli, Etruschi e Umbri – si alleassero contro un nemico comune. La Lega anti-romana avrebbe potuto coinvolgere alla lunga anche popoli che si erano mantenuti sostanzialmente neutrali o non ostili come, ad esempio, i Piceni.
L’esercito romano, dunque, si mise in movimento: al comando Quinto Fabio Massimo Rulliano, console della prima e della terza legione, e Publio Decio Mure in testa alla quarta e alla sesta. Completavano l’esercito un contingente di alleati latini e un contingente di cavalieri. Fra questi ultimi  vi erano anche un migliaio di uomini inviati dalla Lega Campana, i quali erano probabilmente fra i migliori guerrieri della Penisola.

Non è facile ricostruire con esattezza quali furono le operazioni che precedettero lo scontro diretto fra esercito romano ed esercito nemico.

Livio riferisce che le operazioni militari precedenti alla battaglia si svolsero a Camars, l’attuale Chiusi (vd. Tito Livio, Ab Urbe condita, l, X): l’esercito romano si raccolse ad Aharna (Civitella d’Arno), a 10 km da Perugia.

Un’ipotesi è che da qui si mise in cammino verso Gubbio, seguendo l’attuale percorso della linea ferroviaria Fabriano-Sassoferrato, più facile anche da tenere sotto controllo. Poi, forse, da Gubbio l’esercito romano raggiunse il valico del Passo della Scheggia: percorso impervio, ma i Romani già si erano abituati da tempo alle guerre di montagna.

I Sanniti, secondo l’ipotesi più credibile, si mossero verso l’Etruria attraverso i territori degli alleati (Sabini ed Umbri). Unitisi agli Etruschi, proseguirono verso nord per unirsi agli alleati Galli nei pressi di Sentino.

Il probabile percorso dei due eserciti nemici
Battaglia di Sentino: l’itinerario dei due eserciti nemici

Il teatro dell’epico scontro fu Sentinum, nel 295 a. C. L’identificazione più verosimile del luogo esatto si troverebbe nei pressi di Sassoferrato, benché a tutt’oggi manchino ancora le evidenze archeologiche a fugare ogni dubbio.

I due eserciti si trovarono faccia a faccia: i Romani da una parte, i Sanniti e i Galli dall’altra.

Il console romano Rulliano con le sue legioni fronteggiò lo schieramento dei Sanniti, cercando di restare sulla difensiva con il lancio di giavellotti dalla lunga distanza.
Mure, l’altro console, incalzò da subito l’esercito dei Galli: mossa azzardata, dato che questi erano guerrieri molto irruenti. Mure, però, era consapevole che i Galli avevano un enorme punto debole: come riporta Livio, erano poco avvezzi a sopportare il caldo.

L’esercito romano fu spiazzato da una novità che i Galli avevano serbato per coglierli di sorpresa: i carri da guerra. La cavalleria romana andò in confusione: molti cavalieri furono disarcionati, altri batterono in ritirata investendo la fanteria amica.
La battaglia non volgeva al meglio per i Romani. Fu allora che Decio Mure decise di compiere uno dei gesti più eroici che un condottiero romano potesse compiere: il rito della devotio. Mure si sacrificò votandosi alla divinità per la distruzione dell’esercito nemico.
Tale gesto ebbe un effetto galvanizzante sul morale dei combattenti: i Romani riuscirono a ricompattare le fila e Rulliano inviò un contingente di rinforzi. I Romani cominciarono a bersagliare i Galli con una pioggia battente di giavellotti che, conficcandosi negli scudi, destabilizzavano l’equilibrio dei fanti.

Nel frattempo, Rulliano ordinò alla fanteria di portarsi sul fianco dell’esercito sannita, ormai stanco, e di avanzare a passo. Compreso che la resistenza dei Sanniti era stata vinta, ordinò a fanteria e cavalleria la carica.
A quel punto i superstiti Sanniti persero il controllo e batterono in ritirata dal campo di battaglia, mentre Rulliano ordinava alla cavalleria di accerchiare completamente i Galli.
Dopo l’accerchiamento, il console romano fece inseguire i Sanniti fino all’accampamento che fu facilmente espugnato: la maggior parte dei soldati sanniti, infatti, si era ammassata lungo il fossato dell’accampamento, non avendo avuto il tempo di rifugiarsi dentro la palizzata.

Fu una strage: Galli e Sanniti persero probabilmente 25000 uomini, a cui vanno aggiunti 8000 prigionieri. I Romani, invece, persero circa 8700 uomini. Per Roma fu una vittoria straordinaria: i resti dei nemici furono bruciati in onore di Giove Vincitore.

Dopo la battaglia di Sentino la guerra si spostò nel Sannio, teatro di combattimenti per altri cinque anni. Nel 294 a. C., i Romani vinsero i Marsi e conquistarono l’Italia centrale. Gli Umbri furono sconfitti come anche molte città etrusche: Arezzo, Cortona e Perugia furono costrette a sottoscrivere trattati quarantennali.

Testardi fino alla fine, i Sanniti fecero un ultimo, estremo, tentativo di vincere i Romani alleandosi con Pirro nelle guerre tarantine (282-272 a. C.). Pirro, condottiero mediocre, fu sconfitto. Fu così che Roma acquisì il pieno controllo dell’Italia Meridionale: le ricche città greche divennero civitates foederatae.

I Piceni, che fino a quel momento sembravano essere restati a guardare, furono accusati di essersi alleati con Pirro e di aver tradito i patti stabiliti con Roma. Furono invasi e sconfitti nella stessa Ascoli Piceno nel 268 a.C., ultimo popolo del Centro Italia ad essere sottomesso dall’esercito romano.

I popoli italici, fra cui Piceni, Etruschi, Sabini, Umbri, furono sottomessi e assimilati in quel lungo processo sincretico che prende il nome di “romanizzazione” e che porterà alla nascita dell’Italia: un processo di assorbimento e fusione di molteplici culture, lingue, culti e riti.

L’Italia ancora oggi pare essere un crogiuolo di popoli: la nostra speranza, al di là dei naturali problemi socio-politici che l’immigrazione può comportare, è che la nostra cultura, la nostra lingua e la nostra storia millenaria riescano ad unire popoli diversi fra.

Vi invitiamo a consultare il seguente link sulla rievocazione storica della battaglia di Sentino, tenutasi a luglio (2016): sentino.adpvgnamparati.eu.

Bibliografia
Tito Livio, Ab Urbe condita libri;
Guerre Sannitiche, voce di Wikipedia, link consultato il 26 dicembre 2016: http://www.treccani.it/enciclopedia/guerre-sannitiche_(Dizionario-di-Storia)/ ;
Astracedi M. e Barlozzetti U., Sentinum 295 a.C. La battaglia delle nazioni, Soprintendenza per i beni archeologici delle Marche, 2006;
Antonelli L., I Piceni: corpus delle fonti. La documentazione letteraria, Roma, 2003.

La viabilità antica nelle Marche. Storia delle nostre strade.

Spesso pensiamo che la strada sia una conquista della modernità e del progresso; in realtà, sin dalla notte dei tempi, sono state proprio le strade a veicolare i semi della civiltà. Fra tutti i popoli dell’Antichità, furono per primi i Romani a sviluppare una concezione moderna di rete stradale. Le loro opere ingegneristiche sono tutt’oggi presenti e “vive” anche nel nostro territorio marchigiano.

Gli itinerari delle antiche strade marchigiane possono essere ricostruiti principalmente grazie allo studio comparato di tre fonti: i ritrovamenti archeologici, l’Itinerarium Antonini e le opere di cartografia antica, come la celeberrima Tavola Peutingeriana.

Le tre principali vie di comunicazione dell’antico Picenum – che ancora oggi costituiscono i principali assi stradali delle Marche – erano la via Flaminia, la via Salaria e la via litoranea (chiamata Salaria Picena). Una caratteristica importante della viabilità romana era che le strade secondarie tendevano a mantenere il nome della via principale, specificato da un attributo. Ogni via consolare dava così origine ad un sistema viario ben studiato dal punto di vista strategico e logistico.

La mappa mostra gli itinerari delle principali vie romane che collegavano Roma al Piceno. Precisiamo che alcuni percorsi sono basati su teorie e ipotesi di ricerca e attendono una conferma archeologica.
La mappa mostra gli itinerari delle principali vie romane che collegavano Roma al Piceno. Precisiamo che alcuni percorsi sono basati su teorie e ipotesi di ricerca e attendono una conferma archeologica.

La via Flaminia collegava Roma a Fanum Fortunae (Fano); da qui proseguiva fino a Ariminum (Rimini), ricongiungendosi alla via Emilia. La via fu costruita da Gaio Flaminio Nepote (da cui il nome) intorno al 220 a.C. e fu ristrutturata più volte in epoca imperiale con opere d’altissima ingegneria, necessarie a vincere le asperità dei tratti montani. Ricordiamo ad esempio la galleria del Furlo, fatta costruire da Vespasiano fra Fossombrone e Acqualagna, nella provincia di Pesaro-Urbino. All’altezza di Nucera (Nocera Umbra) si staccava un’importante diramazione, che raggiungeva Ancona e da qui Fano, costeggiando il litorale. Altre strade secondarie procedevano da ovest verso est seguendo l’andamento delle valli. Ancora nel Medioevo e nel Rinascimento alcune strade di fondovalle venivano chiamate Flaminia.

La Salaria congiungeva l’Urbe a Castrum Truentinum (Martinsicuro), passando per Reate (Rieti) e Asculum (Ascoli Piceno). Itinerario antichissimo, seguiva la direttrice ovest-est, unendo il Tirreno all’Adriatico, per garantire alle città dell’entroterra e all’Urbe l’approvigionamento di sale. Il suo tratto più antico, d’origine sabina, aveva come meta d’arrivo le saline nei pressi di Ostia (cfr. Festo, L 436).

La Salaria è esplicitamente nominata per la prima volta da Cicerone nel 44 a.C. (De natura Deorum, III 5.11: At enim praesentis videmus deos, ut apud Regillum Postumius, in Salaria Vatinius). Pochi decenni dopo, l’imperatore Augusto promosse imponenti lavori pubblici per migliorarne la viabilità dal punto di vista infrastrutturale. A causa delle caratteristiche naturali del territorio, la via seguiva un percorso obbligato: ancora oggi, infatti, per ampi tratti l’odierna Salaria (SS4)  segue il percorso della strada antica. Giunta a Castrum Truentum, la Salaria si divideva: verso sud proseguiva fino ad Hadria (Atri); verso nord fino ad Ancona con il nome di Salaria Picena.

La Salaria dava inoltre vita ad una serie di itinerari secondari, che congiungevano le città dell’entroterra marchigiano meridionale, secondo la direttrice sud-nord. Questa complessa rete viaria prendeva il nome di Salaria Gallica.

La diramazione più importante della Salaria Gallica si staccava nei pressi di Surpicano, stazione di sosta che sorgeva molto probabilmente dove oggi si trova la chiesa di San Salvatore ad Arquata del Tronto. Attraversando i Sibillini, continuava verso Urbs Salvia (Urbisaglia) e raggiungeva Aesis (Jesi), riallacciandosi così al ramo marchigiano meridionale della Flaminia. Da Amandola, un ulteriore diverticolo si immetteva nella valle del Tenna e raggiungeva Castellum Firmanorum (Porto San Giorgio), passando per Falerio Picenus (Falerone) e Firmum (Fermo).

Ad Ascoli Piceno, dal ponte romano di Borgo Solestà, aveva origine l’altra importante diramazione della Salaria Gallica: la cosiddetta via Statia, che costeggiando le pendici dell’Ascensione e poi  attraverso Montedinove, Monterinaldo e Petritoli arrivava a Fermo.

Più a nord, da Aesis (Jesi) aveva origine anche un raccordo fra la Salaria Gallica e la Salaria Picena: la via Octavia, realizzata da Marcus Octavius Asiaticus in epoca augustea, come testimonia il Lapis Aesinensis. Da Jesi, correndo sulla sponda sinistra dell’Esino arrivava sino ad Ancona, in località Santa Maria di Posatora o Le Torrette.

Riassumendo, nel Piceno la Salaria e la Flaminia davano origine ai due fondamentali sistemi viari: uno che seguiva la direttrice sud-nord (Salaria Picena e Salaria Gallica), l’altro che seguiva la direttrice ovest-est (Flaminia). I due sistemi si incrociavano, permettendo una viabilità di terra estremamente funzionale.

A questa strutturata rete viaria di terra si affiancavano i collegamenti fluviali: infatti, in epoca romana i fiumi marchigiani erano quasi tutti navigabili e costituivano le vie di comunicazione privilegiate per i traffici commerciali.

Bibliografia essenziale:
Enrico Giorgi, Il territorio della colonia. Viabilità e centuriazione, in Storia di Ascoli dai Piceni all’età Tardoantica, a cura di  G. PACI, Ascoli Piceno 2014, pp. 223-289;
https://www.academia.edu/10485446/Il_territorio_della_colonia._Viabilit%C3%A0_e_centuriazione_in_G._PACI_a_cura_di_Storia_di_Ascoli_dai_Piceni_all_et%C3%A0_Tardoantica_Ascoli_Piceno_2014_pp._223-289
Paolo Campagnoli, Enrico Giorgi, La viabilità delle marche centro meridionali in  età tardo antica e altomedievale, in Tardo antico 2006, pp. 111-156;
https://www.academia.edu/2220759/La_viabilit%C3%A0_delle_Marche_centro_meridionali_in_et%C3%A0_tardo_antica_e_altomedievale

Osvaldo Licini

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Foto del pittore appesa nel suo studio (Casa Museo Licini).

 

Osvaldo Licini nacque a Monte Vidon Corrado il 20 Marzo 1894, da genitori entrambi creativi: padre cartellonista e madre direttrice di un atelier di moda. Poco dopo la sua nascita, i suoi si trasferirono a Parigi ed egli restò a vivere nel paese natale, dove trascorse i primi anni di vita con i nonni paterni.

Verso il 1911 il giovane Licini si trasferì a Bologna. Qui si iscrisse al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti. Nel 1914, sempre nel capoluogo emiliano, organizzò la sua prima esposizione insieme al compagno di corsi Giorgio Morandi, Mario Bacchelli, Severo Pozzati e Giacomo Vespignani. La collettiva fu subito definita la “mostra dei secessionisti”, per via del loro spirito anti-accademico, sottolineato dalla presenza di Marinetti, presente all’apertura. In quegli anni, Licini fu seguace del movimento futurista, di cui cercò di cogliere lo spirito non solo con il pennello, ma anche con la penna: fu autore di una raccolta di storie musicate intitolata “I racconti di Bruto”.

Dopo il diploma, andò a studiare scultura all’Accademia di Firenze, ma il suo corso di studi fu interrotto dallo scoppio della Grande Guerra:  nel 1915 partì soldato e venne ferito ad una gamba. Fu proprio durante la convalescenza che conobbe la donna che sarebbe diventata la madre del suo unico figlio naturale, Paolo.

Nel 1917 si trasferì a Parigi, che in quegli anni era la capitale mondiale della cultura: un crogiuolo di musicisti, artisti, letterati e filosofi.  Nella capitale francese, ebbe la straordinaria opportunità di conoscere Picasso e strinse amicizia con Modigliani. Licini cominciò a dividersi fra Firenze e Parigi, con permanenze più o meno lunghe a Monte Vidon Corrado, Montefalcone, Porto San Giorgio e Fermo. In quest’ultima divenne un insegnante del prestigioso Istituto Tecnico Industriale di Fermo, continuando allo stesso tempo ad esporre le sue opere nella capitale francese.

Nel 1926 sposò la pittrice svedese Nanny Hellström, decidendo di trasferirsi in pianta stabile nel paese natale, Monte Vidon Corrado. La “vita di provincia” non frenò la sua carriera artistica, che anzi divenne sempre più impegnativa e fitta d’appuntamenti, con esposizioni a Milano, Parigi, Roma, Basilea, Berna e Stoccolma.

A proposito dello stile pittorico di quegli anni, Licini stesso scrisse: “La mia pittura preastratta è pittura fauve che viene da Cèzanne, Van Gogh e Matisse, tra i maestri di prim’ordine, e i miei disegni lo possono provare”.

Nel 1935, il suo stile mutò direzione: fu uno dei primissimi artisti italiani a sperimentare l’astrattismo che conobbe a Parigi, attraverso le opere di Vasilij Kandiskij, Klee e Man Ray.

A partire dagli anni ’40, nonostante il fermo proposito di non esporre nulla per tutto il periodo della Seconda guerra mondiale, cominciò ad avvicinarsi al surrealismo con influenze simboliste e nordiche, che, unendosi tra loro, davano forma ad un mondo fantastico, abitato da creature inquietanti, eroiche ed affascinanti. Nacquero così le Amalassunte, le sue più amate creature (1945). L’Amalassunta è, come ha scritto Licini stesso poi, “la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”.

Nell’aprile del 1958 Osvaldo Licini espose per la terza volta alla Biennale di Venezia e fu insignito del Gran Premio per la Pittura. Di lì a poco, si spense nella sua casa di Monte Vidon Corrado, in un ritirato rifugio, tra le sue amate colline marchigiane.

Come per per altri uomini e donne d’arte di ogni luogo e tempo, anche per Licini il paesaggio fu un elemento fondamentale nella sua opera. Il paesaggio idilliaco di Monte Vidon Corrado si legò in modo profondo alla sua pittura, tanto da diventarne una componente essenziale. Licini, benché riservato, fu una personalità molto nota e amata nel suo paese, tanto da influenzarne la vita politica. I suoi concittadini, ammaliati dalla sua personalità, lo elessero sindaco per ben due volte, candidato con il Partito Comunista Italiano.

Bibliografia essenziale: 

www.centrostudiosvaldolicini.it

Simoni D. a cura di, Casa Museo Osvaldo Licini, Rivista Centro Studi Osvaldo Licini 0/2013, Monte Vidon Corrado, 2013

Il Piceno

Piceno (Picenum) è il nome che i Romani diedero alla loro Quinta Regio, desumendone il nome dal popolo dei Piceni, che abitavano questa terra già dall’XI secolo a. C.

Centro storico di Montedinove
Centro storico di Montedinove (AP)

L’antico Piceno abbracciava grossomodo le Marche meridionali, l’attuale provincia di Teramo e una parte dell’attuale provincia di Pescara. I suoi confini naturali erano: il fiume Esino a nord, l’Appennino ad Ovest, il fiume Saline a sud e il mar Adriatico ad est.

Oggi si è soliti riferirsi al Piceno, intendendo la sola provincia di Ascoli Piceno.

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Le Marche

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Il Monte Conero, uno dei luoghi simbolo delle Marche

Le Marche sono una regione dell’Italia centrale, situata lungo la costa adriatica. Essa è suddivisa in cinque province: Pesaro-Urbino, Ancona, Macerata, Fermo e Ascoli Piceno.

Già a partire dall’Età del Ferro, questa terra fu abitata da una miriade di popoli : Piceni, Siculi, Umbri e Galli. Anche nei secoli successivi, restò una terra variopinta, suddivisa in Stati più o meno estesi, più o meno duraturi. Non a caso, dopo essere stata nominata Picenum dai Romani, assunse durante il Medioevo il nome di Marche, proprio al plurale. In epoca feudale, infatti, la marca indicava un territorio di confine e le Marche lo furono di diritto, prima del Sacro Romano Impero, poi dello Stato Pontificio.

Le Marche restano un regione al plurale ancora oggi, un Arlecchino di città, di borghi, di dialetti e di paesaggi! Dai suoi colli, lo sguardo spazia dal mare Adriatico ai monti Appennini, in un paesaggio dolce e ondulato, che sembra più frutto di un sogno, che della realtà.

Le Marche in Europa

Il Museo delle Tombe Picene di Montedinove. Una nuova splendida realtà museale

Montedinove, 8 novembre 2015. Approfittando d’una bella giornata di sole autunnale, ci siamo recati a Montedinove, con l’intento di scoprire una nuovissima realtà del territorio: il Museo delle Tombe Picene.

Abbiamo avuto l’immensa fortuna di essere accompagnati dal Vicesindaco, il Sig. Eraldo Vagnetti, che ci ha illustrato i vari reperti e soprattutto ci ha raccontato la storia del museo, essendone stato uno dei principali protagonisti.

Tutto è cominciato nel 1986, quando i lavori di costruzione d’una strada in località colle Pigna hanno portato alla luce una gran quantità di reperti ceramici e metallici. Quel luogo, in realtà, non era nuovo a rinvenimenti di materiale archeologico: i vecchi del luogo raccontavano che passando con l’aratro portavano alla luce una grande quantità di frammenti di ceramica, pezzi di vasi, che chiamavano “pignatte”, secondo l’uso popolare; e proprio per questo, quella località prese il nome di colle Pigna.

Le campagne di scavo si sono protratte a più riprese dalla fine degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta. I ritrovamenti più importanti, dopo un attento restauro, sono stati esposti nel Museo Archeologico di Ascoli Piceno. Montedinove ed i suoi orgogliosi abitanti hanno da subito lottato, per riportare a casa  le tombe dei loro antenati: così sarebbe stato giusto per gli uomini e le donne lì sepolti da più di duemila anni.

Finalmente, il 26 ottobre 2015, dopo anni di progettazione e di lavori, il Comune di Montedinove è riuscito ad aprire il nuovo centro museale nel cuore del suo borgo antico. L’ex chiesa seicentesca delle Clarisse, dopo una gentile donazione del Demanio, è diventata sede del Museo delle Tombe Picene.

Le sepolture appartenevano probabilmente ad un gruppo familiare, che doveva abitare in un villaggio identificato in località Case Arpini, vicino Rotella. La necropoli ha restituito ricchi corredi risalenti al VII e VI secolo a.C., la cui fattura lascia intendere una probabile parentela con le famiglie di alto lignaggio di Belmonte Piceno. Le somiglianze fra i reperti provenienti dai due siti sono incredibili: ciò si spiega con il fatto che ogni tribù avesse una propria tipologia di monili, disegni e stoffe, tramandati di generazione in generazione.

Ad un primo sguardo, si nota la grande differenza fra sepolture maschili e femminili: le prime molto spartane, le seconde ricchissime di gioielli, stoffe, vasellame. Possiamo soltanto immaginare lo splendore di queste nobili donne.

La tomba più antica è quella della coppia capostipite: l’uomo ha un corredo piuttosto povero, mentre lo scheletro della donna è accompagnato da una quantità incredibile di gioielli e manufatti. Curiosamente, accanto al suo corpo è stata posta anche una lancia: ciò voleva indicare il ruolo predominante che ella ricopriva all’interno del villaggio. Anche a Belmonte Piceno si trova un caso simile in quella che viene chiamata la tomba delle Amazzoni.

Nelle tombe più tarde, i corredi femminili si arricchiscono ulteriormente e si trovano due elementi molto particolari, come la grande fibula a gobbe traforata e ageminata ed il pettorale femminile, simbolo della fertilità della donna.

Fra le tombe maschili, è da citare una pregevolissima spada, che non trova nessun altro riscontro se non nel celeberrimo guerriero di Capestrano, esposto al museo di Chieti.

Non possiamo che esprimere il nostro stupore, prossimo alla commozione, per una realtà museale che, come anche il Museo archeologico di Belmonte Piceno, rappresenta un segnale, una sfida lanciata al futuro. Stiamo forse entrando in una nuova epoca, in cui finalmente ci stiamo accorgendo dei tesori, frutto del nostro affascinante passato. Forse è giunto il momento di tramandare e riscoprire questo passato illustre, per avere un’opportunità in più nel futuro; un futuro, che sia frutto di un felice connubio fra tradizione ed innovazione. E questo ci piace!

Per la prossima primavera, turisti e appassionati saranno in grado di ammirare gli splendidi materiali, mai esposti, rinvenuti durante gli scavi. Il Museo delle Tombe Picene è situato in largo Lea Caracini,  presso l’ex Convento delle Clarisse. Per informazioni sui giorni e gli orari d’apertura, è possibile contattare il Comune di Montedinove allo 0736 829410 (tutti i giorni dal lunedì al venerdì).

Cogliamo l’occasione per ringraziare di nuovo la squisita gentilezza del vicesindaco, Eraldo Vagnetti, che ci ha permesso di scoprire un altro meraviglioso angolo del nostro territorio.

Piceni: i figli della Primavera Sacra

Le origini del popolo piceno restano avvolte ancora nel mistero. Secondo l’archeologo Pallottino, si può parlare di una civiltà medio-adriatica sviluppata, benché priva di “quel livello di strutture urbane e di espressioni architettoniche e figurative monumentali che vediamo imporsi con la colonizzazione greca nell’Italia meridionale e affermarsi nell’area tirrenica fin dal VII sec. a. C.”. I Piceni non hanno mai abbandonato il tipo di insediamento protostorico, benché avessero raggiunto forme raffinate d’arte scultorea e metallurgica, come testimoniato dai notevoli reperti scultorei e dai ricchi corredi tombali ritrovati.

I Piceni erano un popolo perfettamente conscio della propria posizione e della propria identità, posto all’interno di una fitta rete di scambi commerciali e culturali con il mondo greco, con il mondo etrusco e con le popolazioni di origine celtica del nord Europa.

Pallottini ipotizza che prima del IX secolo a. C. nell’Adriatico centrale fosse presente un gruppo etnico sostanzialmente unitario. Un indizio sarebbe da rintracciare nel nome etnico di Safini, attestato da un’iscrizione ritrovata in Abruzzo a Penna S. Andrea, nei pressi di Cermignano. Questi Safini non sarebbero stati altri che i Sabini gravitanti in area tirrenica ed i Sanniti, presenti nel sud Italia.

In Abruzzo, è certo che l’etnia sabina fosse suddivisa in varie tribù: Frentani, Maruccini, Vestini, Pretuzi, stanziati fra il Gargano e il fiume Helvinum, quest’ultimo identificabile con il torrente Acquarossa, fra Grottammare e Cupra Marittima. Anche a nord dell’Helvinum, possiamo ipotizzare che esistessero varie tribù, anche se non vi sono evidenze archeologiche che provano ciò.

Ora, possiamo supporre che in un dato momento la tribù dei Picentes o Pikenoi abbia prevalso sulle altre, fino a dare il nome alla regione compresa fra l’Aterno e l’Esino. Pallottini tiene a precisare che a nord dell’Esino non si può parlare né di Piceno né di Piceni, definendo “erronea” la “distinzione proposta dai linguisti fra iscrizioni sud picene […] e nord picene per i testi di Novilara, la cui origine resta a tutt’oggi poco chiara”. La cultura di Novilara deve essere considerata antecedente ai Piceni e va messa in rapporto con la presenza di gruppi allogeni, di varia provenienza. Non dimentichiamo che in epoca protostorica il Mediteranneo era un crocevia di popoli, che praticavano intensamente il commercio marittimo. Si può ipotizzare che i vari gruppi etnici impiantassero empori e basi di scalo, lungo le rotte marittime costiere.

Giusto per far capire quale incredibile crogiolo di etnie fossero le Marche dell’epoca protostorica, basti pensare che la tradizione storiografica greca parla di Ombrici (Umbri) stanziati a nord del Conero. Questi avevano fondato un santuario dedicato a Diomede, di cui erano devoti. Gli Umbri avrebbero abitato il nord delle Marche nello stesso periodo dei Piceni, e sarebbero stati preceduti dai Siculi, poi fondatori di Ancona e Numana.

Numerose fonti antiche fanno risalire l’etimo del termine “Piceni” al picus, il picchio, o alla pica, l’ambra. La tradizione del picchio è riportata da Tito Livio (Ab Urbe Condita, lib. XXXIV) e continua in Plinio il Vecchio. Da tali fonti, si evincerebbe che i Piceni avessero avuto origine dalla migrazione di una tribù Sabina, durante il rito della Primavera Sacra: «Orti sunt a Sabinis voto vere sacro ( Nat. Hist. III 13, 18)».

Secondo le fonti, durante la Primavera Sacra, tutti i primogeniti di uomini e animali erano sacrificati alle dinività ctonie. Questo rito cruento si ammorbidì nel tempo e fu sostituito con la migrazione coatta: i nati in primavera venivano espulsi dal villaggio d’origine. Non si può escludere un fondo di verità: l’aumento demografico imponeva la migrazione, che veniva giustificata a livello cultuale.

Paolo Diacono, nell’VIII secolo d. C.,  riassunse in epitome il De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo (II secolo d. C.), che a sua volta costituiva un compendio del poderoso De verborum significatu di  Verrio Flacco, insigne grammatico di età augestea. In  Paul. Fest. P. 234 Lindsay, s. v. Picena Regio, leggiamo infatti: «Picena Regio, in qua est Asculum, dicta, quod Sabini cum Asculum proficiscerent, in vexillo eorum picus consederat». A Paolo Diacono fanno riferimento altre testimonianze simili, fra cui quella di Isidoro di Siviglia, che scrive nelle Etymologiae: «Picena regio, ubi est Asculum, a Sabinis est appellata quod inde vere sacro nati cum Asculum proficiscerentur, in vexillo eorum picus consederat».

Il termine vexillum farebbe pensare ad una migrazione di carattere militare. Forse, il picchio di cui parlano le fonti era animale sacro a Marte, dio della guerra. In Dionisio di Alicarnasso (1,14, 5), è riportata una notizia risalente a Varrone: nel santuario di Tiora Matiena, a 300 stadi da Rieti sulla via per Lista, esisteva un antichissimo oracolo sacro a Marte, paragonabile a quello di Dodona, in cui un picchio vaticinava su un palo. Le fonti non lo possono assicurare, ma è possibile che proprio da qui partì il ver sacrum verso Ascoli, attraverso Montereale e Amatrice.

Mappa dei ritrovamenti piceni nelle Marche

I Picenti sarebbero stati alleati dei Romani fino al 299 a.C. in funzione anti-Pretuzi, situati sotto all’Helvinum. I Romani puntarono verso l’Adriatico, cercando di dominare prima i Pretuzi, fondando probabilmente nel 289 Hatria, a sud di Teramo. Ad Hatria arrivava probabilmente la via Caecilia, la prima via publica, che collegava Roma all’Adriatico attraverso la valle del Vomano, percorsa già dai Sabini di Penna Sant’Andrea.

Mappa dei ritrovamenti piceni

Bibliografia essenziale:
AA.VV., I Piceni popolo d’Europa, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 3-13.
Pallottino Massimo, “La civiltà picena”. Un’impostazione storica, in La civiltà picena nelle Marche. Studi in onore di Giovanni Annibaldi, atti del Convegno sulla Civiltà Piacena nelle Marche, 10-13 luglio 1988,  Maroni, Ancona 1988.

Una terra, un vino, un popolo. Le origini della viticoltura nel Piceno (parte seconda)

Veniamo dunque al Piceno. Sempre nell’VIII secolo a.C., sul versante Adriatico fra Marche e Abruzzo, i Piceni hanno avviato la produzione e commercializzazione del vino, allevando vitigni selvatici. A Matelica, negli scavi di Villa Clara, gli archeologi hanno ritrovato tracce di circa duecento vinaccioli, nella tomba di un ricco principe piceno vissuto nel VII secolo a.C.

Verosimilmente, la vicinanza geografica con gli Etruschi ha influenzato profondamente la viticoltura dei Piceni, sia per le tecniche che per l‘adozione di vitigni non selvatici. I Piceni praticavano probabilmente una viticultura a paletto, che doveva essere maggiormente diffusa nella regione compresa fra il fiume Metauro (a nord) e il fiume Tronto (a sud). Non sembra essere un caso che questa stessa area corrisponda, grosso modo, all’area di produzione del Rosso Piceno (o Piceno). Quest’area coincide anche con quella che a livello di dati archeologici ci ha restituito più reperti, attestando una frequentazione picena pressoché continuativa a partire dal IX a.C. Nella cartina sottostante, possiamo vedere la suddivisione della regione Marche per aree di produzione vinicola ed i siti di rilevanza archeologica. Abbiamo segnato con dei puntini i siti di maggiore interesse, con le testimonianze archeologiche picene certe. Oggi, l’area di produzione del Rosso Piceno è stata stabilita per legge dal Disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di Origine Controllata (DPR 11.08.1968 G.U. 245 – 26.09.1968). In particolare, troviamo la maggiore espressione del vino Piceno tra le province di Ascoli Piceno e Fermo.

Nella vasta area marchigiana di coltivazione della vite vi è una zona più ristretta, che presenta delle differenze non solo a livello culturale, storico e archeologico, ma anche a livello di tecnica colturale. In una porzione dell’attuale provincia di Ancona, il vino che secondo il Disciplinare odierno si produce è diverso dal Rosso Piceno ed è denominato Rosso Conero. L’area del Rosso Conero, che appare come una sorta di “enclave vitivinicola” nelle terre del Rosso Piceno, è la stessa area che fu sotto il diretto influsso dei coloni greci di Ancona.
L’emporion di Ankòn, fondato nel 387 a.C. da esuli siracusani di stirpe dorica, influenzò non solo i commerci del Piceno verso l’esterno, ma anche il territorio dell’entroterra marchigiano: i coloni magno-greci importarono in quest’area la tecnica “ad alberello”, che ancora oggi caratterizza una parte della produzione del Rosso Conero (si veda ad esempio la cantina Umani Ronchi nell’osimano). Va ricordato, poi, che tale forma di coltivazione è ancora largamente praticata nelle isole greche, fatto che testimonia una profonda continuità storica.

Si può ipotizzare che le cultivar più utilizzate in queste zone fossero le stesse che sono utilizzate ancora oggi per la produzione dei vini rossi, quali il vitigno autoctono del Montepulciano e il Sangiovese (la cui origine è ancora molto dibattuta). I vini di Ancona dovevano indubbiamente essere di assoluto pregio: l’infaticabile Plinio il Vecchio, sempre nella sua Naturalis Historia, non lesinò sugli elogi tributati al vino “Pretoriano” del versante adriatico. Anche il celeberrimo cuoco Marco Gavio Apicio parlò nelle sue ricette del vino di Ancona (anconetanum).

Mappa vino e arche
Mappa della regione Marche con aree di produzioni vitivinicole DOC e DOCG e siti dei ritrovamenti archeologici piceni.

In Italia, i coloni greci riuscirono a trasformare il vino da semplice prodotto alimentare a merce di scambio, diffondendo anche il culto di Dioniso, il dio del vino e dell’ebbrezza. Gli stessi Etruschi ebbero una divinità omologa, Fufluns e, come i Greci, svilupparono un proprio rituale legato al vino. Potremmo, perciò, ipotizzare che anche i Piceni imitarono i loro vicini, imparando a sfruttare l’enorme potenziale vitivinicolo e commerciale delle loro terre. Verosimilmente, aspetti sociali ed economici assunsero una valenza cultuale, come può desumersi dalle forme ceramiche tipiche esclusive di quest’area.

(Clicca qui per leggere la prima parte)

Bibliografia essenziale:
AA. VV., Il vino in Italia, Milano 2015
Blakeway A., Prolegomena to the Study of Greek Commerce with Italy, Sicily and France in the Eight and Seventh Centuries, in «The Annual of British School of Athens», 33, pp. 170-208
Bianchi Bandinelli R., Torelli M., L’arte dell’antichità classica, Torino, 2010
Buono R., Vallariello G., Introduzione e diffusione della vite (Vitis vinifera L.) in Italia, in “Delpinoa”44, 2002, pp. 39-51
Cerchiai L., Il programma figurativo dell’Hydria Ricci, in «Antike Kunst», 38, H. 2 1995, pp. 81-91
Gambari F. M., I celti e il vino, Biella, 1998
Forni G., Quando e come sorse la viticoltura in Italia, in «Archeologia della vite e del vino in Etruria», a cura di A. Ciacci, P. Rendini, A. Zifferero, pp. 69-81, Siena 2007
Torelli M., Gli Etruschi, Milano, 2000
Unwin T., Storia del vino: geografie, culture e miti dall’antichità ai giorni nostri, Roma, 1996

Una terra, un vino, un popolo. Le origini della viticoltura nel Piceno (parte prima)

Il vino è una bevanda essenziale nella nostra cultura e da sempre ha rivestito un’importanza centrale. Ancora nel mondo contadino fino a pochi decenni fa, la vendemmia costituiva un rito, nel quale confluiva una complessa e profonda simbologia. Cerchiamo di ripercorrere le origini della viticoltura nella nostra terra: il Piceno.

Il vino è ed è stato uno dei simboli sociali più importanti per la storia dei popoli del Mediterraneo. Gli archeologi hanno datato addirittura al 5100 a.C. il primo rinvenimento di una giara, contenente i resti di una bevanda che può essere considerata l’antenata del nostro vino.

Tracce di proto-stabilimenti vinicoli sono attestate in Armenia, nella città di Areni, ed in Turchia, alle pendici del Tauros. Da queste aree, la coltivazione della vite si è verosimilmente diffusa in tutto il Medio Oriente: il Monte Ararat, la Mesopotamia e l’Egitto sono le prime regioni dove la vite è stata allevata per la produzione della preziosa bevanda. Non è un caso che nell’epopea sumera di Gilgamesh (Tavola IX), nella Bibbia (Genesi 9, 20-27) e nel mito egiziano di Osiride, la vendemmia costituisca un tema rilevante.

Andando avanti nel tempo, la viticoltura è stata esportata in tutto il Mediterraneo, grazie a popoli dediti al commercio e alla navigazione: i Micenei l’hanno importata in Grecia, i Fenici nelle colonie. Ciò è accaduto grosso modo fra la seconda metà del II millennio a.C. e l’inizio del I millennio a.C.

Il poeta greco Esiodo (VIII secolo a. C.) ci ha lasciato una descrizione molto precisa d’una tecnica di allevamento e vinificazione:

«Quando poi Orione e Sirio sono giunti a mezzo del cielo, e Aurora dalle dita di rosa riesce a vedere Arturo, allora, o Perse, raccogli tutti i grappoli d’uva e portali a casa; esponili al sole per dieci giorni e dieci notti; quindi per cinque giorni lasciali all’ombra, ed al sesto versa nei recipienti il dono di Dioniso ricco di letizie» (Le opere e i giorni, vv. 609-617).

In particolare, in questo passo Esiodo si riferisce ad una tecnica di vinificazione tipica della Beozia, che ricorda molto da vicino la produzione dell’odierno passito.

Il vino ha ricoperto un ruolo così centrale nella cultura dell’antica Grecia che anche gli ecisti (i capi scelti per le spedizioni delle colonizzazioni) portavano dalla madrepatria tralci di uva da impiantare nelle nuove colonie. Così, attorno all’VIII secolo a. C., i Greci importarono anche in Italia i loro vitigni. I Greci utilizzavano un tipo di coltivazione detta “ad alberello”: senza sostegni o con paletti semplici. Nell’Antichità, tale tecnica è descritta accuratamente da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (I secolo a.C.).

La viticoltura italica di matrice greca è attestata figurativamente nella produzione di ceramiche decorate, che intorno al VI secolo a. C. prendono forme e nomi sempre più specifici, in relazione alla loro funzione. È interessante notare che gli storici dell’antica Grecia per lungo tempo hanno chiamato l’Italia con il nome di Enotria, ovvero la terra abitata dagli Enotri”, popolo del Sud Italia così chiamato in onore del loro capostipite: Enotro. Il nome Enotro deriverebbe, a sua volta, dal termine greco oinotron, cioè “palo da vigna”. Ciò confermerebbe il fatto che le popolazioni italiche possedessero una tecnica autoctona di viticoltura (con sostegno), ben diffusa nell’Italia meridionale. Il sostegno poteva essere costituito da un palo o dal tronco di un’altra specie arborea, come l’olmo o il leccio: si parla in tal caso di vite maritata.  L’uso del palo in vigna caratterizzerebbe tutti i popoli italici preromani, a differenza dei Greci.

Hydria Ricci
Scena di viticoltura: particolare dell’hydria Ricci (VII sec. a. C.), conservata a Roma nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

In Italia, prima dell’arrivo dei Greci, la vite era già coltivata, anche se solo nella sua specie selvatica. Sin dall’VIII a.C., nella Valdarno, gli Etruschi si servivano del frutto della vitis vinifera sylvestris, cioè la forma selvatica della vitis vinifera sativa, diffusasi attraverso la mediazione greca. Ben presto gli Etruschi si resero conto che l’addomesticamento della vite era essenziale per migliorare la resa della pianta. Per tale motivo, ne adottarono la coltivazione, attraverso tecniche più adatte ai loro climi e alle loro terre. Così, mentre nella Magna Grecia i coloni diffondevano la viticoltura ad alberello, nell’Italia centro-settentrionale gli Etruschi sviluppavano la viticoltura con sostegno. All’area della loro massima espansione coincide la diffusione della coltivazione della vite a sostegno vivo, sia in Campania che nell’Italia centro-settentrionale.

Molti studiosi hanno parlato di una sorta di “frontiera nascosta” in Campania, tra gli Etruschi di Capua e i Calcidesi di Cuma, che potrebbe essere geograficamente identificata con il corso del fiume Sele.

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