Aperto nel 2008, il piccolo Museo Civico Archeologico di Monte Rinaldo contiene una raccolta di reperti provenienti dal sito archeologico in località “La Cuma”.
Sede del Museo archeologico di Monte Rinaldo
L’ex Chiesa del SS. Crocifisso, in via Crocifisso snc, poco distante dal centro storico, è stata scelta come location ideale per i reperti archeologici in quanto la stessa chiesa fu edificata con materiali di riutilizzo provenienti dal sito archeologico.
In apposite teche sono esposte le lastre in terracotta che ricoprivano le travi lignee del tempio (appartenenti a diverse fasi cronologiche del sito di Monte Rinaldo), le antefisse del tetto con la rappresentazione della Potnia Theròn (la “Signora degli animali”), i materiali del frontone, con la testa di un giovane Ercole e altri frammenti di teste e panneggi. Inoltre, vi sono alcuni degli antichi ex voto anatomici raffiguranti animali e figure femminili, che i pellegrini portavano qui in offerta alla divinità, per ingraziarsi il favore di una sanatio.
Utilissimo a scopo didattico è anche il plastico qui esposto con una verosimile ricostruzione del santuario.
Il costo dell’ingresso al museo è attualmente di 3,00 euro e comprende anche la visita guidata al sito archeologico “La Cuma” di Monte Rinaldo. Per informazioni sugli orari di apertura o per prenotare una visita all’area archeologica di Monte Rinaldo, consigliamo sempre di contattare anticipatamente il Comune allo 0734 777121, oppure la D&P-Turismo e Cultura 347 2892519, o di visitare il sito www.monterinaldo.135.it per consultare gli orari aggiornati.
Plastico tridimensionale del sito
Testa barbuta dal frontone del tempio di Monte Rinaldo
Ex voto anatomici
Sede del Museo archeologico di Monte Rinaldo
Bibliografia essenziale:
Annibaldi G., Monterinaldo, in “Enciclopedia Arte Antica”, Supplemento, Roma 1973.
Ciuccarelli M.R., Il santuario di Monte Rinaldo (Ascoli Piceno) e il suo territorio, Pisa 1999
Catani E., Il Santuario Ellenistico Romano presso Monterinaldo: Un’emergenza archeologica e monumentale dell’Ascolano, in “Il Piceno in età romana dalla sottomissione a Roma alla fine del mondo antico”, Atti del 3° Seminario di Studi per personale direttivo e docente della scuola (Cupra Marittima, 1991), Cupra Marittima 1992.
Sisani S., Umbria Marche, Guide archeologiche Laterza, Roma-Bari 2006.
Nell’entroterra della provincia di Fermo si trova il comune di Monte Rinaldo, un piccolo paese dell’alta valle del fiume Aso, che custodisce nel suo ameno territorio uno dei siti archeologici più affascinanti delle Marche e del Piceno: un santuario ellenistico-romano.
Tra il 1958 e il 1963, a seguito di alcuni lavori agricoli, sono venuti alla luce i primi rinvenimenti archeologici, che hanno dato il via ad una serie di interventi di indagine, a tutt’oggi non ancora terminati. A seguito degli scavi, nel corso degli anni ‘60, le colonne del porticato sono state fatte oggetto di anastilosi, cioè sono state reinnalzate, restituendo in parte l’aspetto monumentale che il sito doveva avere anticamente.
Il santuario si trova sul pendio della collina che porta al centro cittadino, in una località chiamata già “La Cuma”. Nonostante l’etimologia del nome “Cuma” abbia fatto pensare ad evocativi contatti con l’omonima città della Campania sede della celebre Sibilla, in realtà il termine si riferisce alla morfologia del territorio: infatti, nei testi medioevali latini la parola cuma indica un terreno in pendio, che digrada a fondo valle, proprio come quello dove si trova il sito archeologico di Monte Rinaldo.
Il portico del santuario di Monterinaldo
Il santuario sorgeva su un ampio terrazzamento artificiale, sostenuto dall’imponente muro di fondo del porticato settentrionale, lungo 63,50 metri. Davanti all’imponente muro si sviluppava il portico, costituito da due file di colonne (porticus duplex), una di ordine tuscanico, l’altra di ordine dorico: insieme creavano il perfetto sfondo scenografico dell’area sacra.
Di fronte al porticato, si trovava il tempio, oggi visibile solo a livello delle fondamenta. Le strutture sono state interpretate come l’alzato della cella del tempio, con due alae laterali, o come i muri divisori di tre celle sul modello del tempio capitolino di Roma.
L’ingresso doveva trovarsi sul lato meridionale, dove si trova l’attuale ingresso al sito archeologico. Recenti indagini hanno portato alla luce le fondazioni di un’ala del porticato ad Est, che doveva chiudere il complesso da quel lato, così come si può supporre accadesse ad Ovest del tempio. Nelle immediate vicinanze, vi sono altre strutture murarie, a suddividere cinque piccoli ambienti, collegati ad un pozzo (ora non più visibile) tra il porticato Nord e il podio.
I reperti più antichi, come gli ex voto anatomici, sembrano testimoniare l’esistenza del sito già a partire dal III secolo a.C., ma la reale monumentalizzazione del santuario si ha a partire dalla metà del II a.C. fino al I a.C.: proprio in quel periodo il territorio Piceno entrava nell’orbita di conquista di Roma a seguito della battaglia di Sentino.
Il santuario perse gradualmente importanza a partire dal II d.C. fino al completo abbandono nel III d.C., a seguito di frane e smottamenti, che ne compromisero l’utilizzo. Il materiale di recupero fu dapprima utilizzato per la costruzione di una domus romana non distante dal sito. Successivamente, altri materiali furono riutilizzati per alcune costruzioni di Monte Rinaldo, come ad esempio l’ex chiesa del SS. Crocifisso, oggi Museo Civico Archeologico.
Il quesito più grande cui gli studiosi non sono riusciti (ancora) a dare una risposta soddisfacente, è a chi fosse dedicato il tempio. Le ipotesi più accreditate volgono lo sguardo verso Artemide o Giove, anche sulla base dei materiali ritrovati. Altri hanno parlato di una dedica alla dea Cupra, l’unica divinità picena di cui ci sia giunta notizia; ma l’accostamento, seppur suggestivo, non ha trovato dati di conferma.
L’unico elemento sicuro è che vi fosse un culto correlato all’acqua, elemento fondamentale in una società agricola. I pozzi e le canalizzazioni ritrovati provano che vi fosse una sorgente, ritenuta probabilmente curativa: i pellegrini del santuario venivano qui a lasciare i loro ex voto anatomici (e non solo) per chiedere alla divinità protettrice una sanatio, cioè la guarigione di una o più parti del corpo affette da una patologia.
La tipologia del santuario di Monte Rinaldo rientra nella serie di templi porticati tardo-ellenistici, costruiti in ambito extra-urbano, in zone considerate di confine, con funzione di demarcazione sacrale. Solo nell’Italia centrale sono numerosi gli esempi che attestano tale modello architettonico: il santuario di Giunone a Gabii, quello di Ercole Vincitore a Tivoli, quello di Esculapio a Fregellae e il santuario del Sannio di Pietrabbondante.
Il santuario di Monte Rinaldo, tra il mare Adriatico e i monti Sibillini, nel bel mezzo delle valli del fiume Aso e dell’Ete, non lontano dall’itinerario dell’antica via Salaria Gallica, è un fulgente esempio del fenomeno storico di “romanizzazione” nel Piceno, in cui le tradizioni italiche e il sincretismo romano hanno trovato una maestosa simbiosi.
Plastico tridimensionale del sito
Oggi l’area archeologica “La Cuma” di Monte Rinaldo fa parte del TAU (Teatri Antichi Uniti delle Marche): in estate funge da sfondo scenico per spettacoli teatrali e culturali unici per atmosfera.
Infine, suggeriamo la visione di un interessante videoclip, presente online su YouTube, della British Pathè, leggendaria agenzia britannica di cinegiornali storici, in cui si documenta l’inizio dello scavo in quella che oggi è l’Area Archeologica “La Cuma” di Monte Rinaldo (segui il link per visualizzare il video: https://m.youtube.com/watch?v=bzLP6jkZcVo).
Bibliografia essenziale:
Annibaldi G., Monterinaldo, in “Enciclopedia Arte Antica”, Supplemento, Roma 1973
Ciuccarelli M.R., Il santuario di Monte Rinaldo (Ascoli Piceno) e il suo territorio, Pisa 1999
Catani E., Il Santuario Ellenistico Romano presso Monterinaldo: Un’emergenza archeologica e monumentale dell’Ascolano, in “Il Piceno in età romana dalla sottomissione a Roma alla fine del mondo antico”, Atti del 3° Seminario di Studi per personale direttivo e docente della scuola (Cupra Marittima, 1991), Cupra Marittima 1992
Sisani S., Umbria Marche, Guide archeologiche Laterza, Roma-Bari 2006
In passato per Fermano si indicarono due realtà territoriali analoghe, a seconda delle vicissitudini storico-politiche che unirono le due principali città, Fermo ed Ascoli, in un comune destino. Fermano fu a volte sinonimo diPiceno, ma più spesso ne indicò una porzione, generalmente coincidente con le attuali Marche meridionali.
Un documento del 983 d. C. attesta per la prima volte l’esistenza della Marca Fermana (Marchia Firmana), che fu una parte del Ducato Longobardo di Spoleto. Il suo territorio era compreso tra il fiume Musone ad nord e il Sangro a sud e comprendeva i Comitati di Camerino, Ascoli Piceno, le zone di Chieti e Teramo. In seguito alle complesse vicende storiche che videro antagonisti il papa e il re dei Normanni, la Marca Fermana si ridusse alla sola area delle Marche meridionali: nel 1080 il fiume Tronto fu preso come confine naturale tra lo Stato della Chiesa e il regno normanno.
Vista su Petritoli (FM)
Nel XIV secolo lo Stato Pontificio annetté completamente la Marca Fermana, che rimase assoggettata a Roma fino all’Unità d’Italia. Nel 1860, Fermo ed il suo territorio entrarono a far parte della provincia di Ascoli Piceno, non senza proteste: i fermani rivendicarono a lungo il loro diritto di trasferire nella loro città il capuologo di provincia. Ciò è avvenuto con la costituzione della provincia di Fermo nel 2009, che per la prima nella storia ha separato politicamente i due territori. Oggi, dunque, per “Fermano” si intende il territorio compreso da tutti i comuni che ne fanno parte.
Nel piccolo castello di Monte Vidon Corrado, incastonato come una pietra preziosa nella bella campagna marchigiana, si trova uno di quei luoghi che non t’aspetteresti di trovare in un paese quasi sperduto fra i colli: la Casa Museo Osvaldo Licini.
Tutti conoscono, anche solo di nome, il grande pittore montevidonese, ma pochi ancora sanno che la casa, in cui visse dal 1926 fino alla morte, è diventata un museo.
Dopo un’attenta ristrutturazione dell’immobile, per opera dell’architetto Manuela Vitali, la casa è stata destinata a museo e restituita alla collettività. Tutti gli ambienti sono stati ricomposti con gli arredi e gli oggetti originali, generosamente donati da Caterina Celi Hellostroem, figlia adottiva della moglie dell’artista.
La casa di Licini è una veneranda dimora padronale del Settecento, disposta su tre livelli. Al seminterrato si trova la cantina, interamente in laterizio a vista: qui il Maestro preparava personalmente i colori e teneva riunioni segrete con i compagni di partito, durante il periodo in cui fu sindaco di Monte Vidon Corrado. Qui si trova la grande vasca per la preparazione del vino cotto e, appeso alla parete, un cerchio di botte in cui il pittore aveva inserito un crocifisso.
Al piano terra vi sono la cucina ed il salone, con un arredamento dal gusto tipicamente nord europeo. Parte degli arredi, infatti, furono acquistati in Svezia e, come sappiamo dai documenti della dogana, arrivarono nel porto di Ancona nel 1932.
Nel salone si possono ammirare due opere originali: il Ritratto della madre (1922) e Paesaggio, entrambe del periodo figurativo di Licini.
Dal piano terra, attraverso un’ampia scala si sale al primo piano. Da notare il soffitto dipinto dal pittore stesso di azzurro e grigio, per coprire alcune crepe formatesi in seguito al terrremoto del 3 ottobre 1943.
Arrivati al piano superiore, si trovano le camere e lo studio dell’artista. Nella camera matrimoniale, sulla parete cui è addossato il letto un’altra pittura parietale di Licini fa da testiera: si tratta dell’Archipittura in stile costruttivista, un disegno geometrico su fondo nero basato sulla forma triangolare, al cui centro si trova un quadro della Madonna. Colpisce davvero molto la modernità di questa scelta di design e di colore per l’epoca originalissima.
Veniamo ora al Sancta Sanctorum della casa: il luminoso studio, in cui l’artista soleva lavorare indisturbato. Tutto è stato riposizionato come quando era vivo: la scrivania incrostata di colori vicino alla finestra, i manifesti delle mostre alla parete, la branda dove l’artista dipingeva semi-sdraiato per non stancare la gamba ferita durante la Prima guerra mondiale. Nelle mensole della parete sono stati persino riposizionati i pennelli, le tavolozze e i colori, ritrovati in cantina.
Gli anziani del paese raccontano che lo studio era invaso da una buona dose di “disordine d’artista”: libri e carte d’ogni genere invadevano ogni angolo del pavimento. Naturalmente, i libri oggi non ci sono più, ma la presenza del pittore è ancora, in qualche modo, tangibile: quell’uomo così carismatico, così forte, pieno di vita, sembra ancora abitare quei luoghi.
Al termine della visita è come se lo si conoscesse da sempre: si scendono le scale e si è un po’ malinconici, quasi che si volesse rimanere ancora un po’, per rivivere quell’atmosfera “ribelle” di un’artista, che alla “festa mobile” di Parigi preferì il ritiro pacato di Monte Vidon Corrado.
Piceno (Picenum) è il nome che i Romani diedero alla loro Quinta Regio, desumendone il nome dal popolo dei Piceni, che abitavano questa terra già dall’XI secolo a. C.
Centro storico di Montedinove (AP)
L’antico Piceno abbracciava grossomodo le Marche meridionali, l’attuale provincia di Teramo e una parte dell’attuale provincia di Pescara. I suoi confini naturali erano: il fiume Esino a nord, l’Appennino ad Ovest, il fiume Saline a sud e il mar Adriatico ad est.
Oggi si è soliti riferirsi al Piceno, intendendo la sola provincia di Ascoli Piceno.
Il Monte Conero, uno dei luoghi simbolo delle Marche
Le Marche sono una regione dell’Italia centrale, situata lungo la costa adriatica. Essa è suddivisa in cinque province: Pesaro-Urbino, Ancona, Macerata, Fermo e Ascoli Piceno.
Già a partire dall’Età del Ferro, questa terra fu abitata da una miriade di popoli : Piceni, Siculi, Umbri e Galli. Anche nei secoli successivi, restò una terra variopinta, suddivisa in Stati più o meno estesi, più o meno duraturi. Non a caso, dopo essere stata nominata Picenum dai Romani, assunse durante il Medioevo il nome di Marche, proprio al plurale. In epoca feudale, infatti, la marca indicava un territorio di confine e le Marche lo furono di diritto, prima del Sacro Romano Impero, poi dello Stato Pontificio.
Le Marche restano un regione al plurale ancora oggi, un Arlecchino di città, di borghi, di dialetti e di paesaggi! Dai suoi colli, lo sguardo spazia dal mare Adriatico ai monti Appennini, in un paesaggio dolce e ondulato, che sembra più frutto di un sogno, che della realtà.
Veniamo dunque al Piceno. Sempre nell’VIII secolo a.C., sul versante Adriatico fra Marche e Abruzzo, i Piceni hanno avviato la produzione e commercializzazione del vino, allevando vitigni selvatici. A Matelica, negli scavi di Villa Clara, gli archeologi hanno ritrovato tracce di circa duecento vinaccioli, nella tomba di un ricco principe piceno vissuto nel VII secolo a.C.
Verosimilmente, la vicinanza geografica con gli Etruschi ha influenzato profondamente la viticoltura dei Piceni, sia per le tecniche che per l‘adozione di vitigni non selvatici. I Piceni praticavano probabilmente una viticultura a paletto, che doveva essere maggiormente diffusa nella regione compresa fra il fiume Metauro (a nord) e il fiume Tronto (a sud). Non sembra essere un caso che questa stessa area corrisponda, grosso modo, all’area di produzione del Rosso Piceno (o Piceno). Quest’area coincide anche con quella che a livello di dati archeologici ci ha restituito più reperti, attestando una frequentazione picena pressoché continuativa a partire dal IX a.C. Nella cartina sottostante, possiamo vedere la suddivisione della regione Marche per aree di produzione vinicola ed i siti di rilevanza archeologica. Abbiamo segnato con dei puntini i siti di maggiore interesse, con le testimonianze archeologiche picene certe. Oggi, l’area di produzione del Rosso Piceno è stata stabilita per legge dal Disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di Origine Controllata (DPR 11.08.1968 G.U. 245 – 26.09.1968). In particolare, troviamo la maggiore espressione del vino Piceno tra le province di Ascoli Piceno e Fermo.
Nella vasta area marchigiana di coltivazione della vite vi è una zona più ristretta, che presenta delle differenze non solo a livello culturale, storico e archeologico, ma anche a livello di tecnica colturale. In una porzione dell’attuale provincia di Ancona, il vino che secondo il Disciplinare odierno si produce è diverso dal Rosso Piceno ed è denominato Rosso Conero. L’area del Rosso Conero, che appare come una sorta di “enclave vitivinicola” nelle terre del Rosso Piceno, è la stessa area che fu sotto il diretto influsso dei coloni greci di Ancona.
L’emporion di Ankòn, fondato nel 387 a.C. da esuli siracusani di stirpe dorica, influenzò non solo i commerci del Piceno verso l’esterno, ma anche il territorio dell’entroterra marchigiano: i coloni magno-greci importarono in quest’area la tecnica “ad alberello”, che ancora oggi caratterizza una parte della produzione del Rosso Conero (si veda ad esempio la cantina Umani Ronchi nell’osimano). Va ricordato, poi, che tale forma di coltivazione è ancora largamente praticata nelle isole greche, fatto che testimonia una profonda continuità storica.
Si può ipotizzare che le cultivar più utilizzate in queste zone fossero le stesse che sono utilizzate ancora oggi per la produzione dei vini rossi, quali il vitigno autoctono del Montepulciano e il Sangiovese (la cui origine è ancora molto dibattuta). I vini di Ancona dovevano indubbiamente essere di assoluto pregio: l’infaticabile Plinio il Vecchio, sempre nella sua Naturalis Historia, non lesinò sugli elogi tributati al vino “Pretoriano” del versante adriatico. Anche il celeberrimo cuoco Marco Gavio Apicio parlò nelle sue ricette del vino di Ancona (anconetanum).
Mappa della regione Marche con aree di produzioni vitivinicole DOC e DOCG e siti dei ritrovamenti archeologici piceni.
In Italia, i coloni greci riuscirono a trasformare il vino da semplice prodotto alimentare a merce di scambio, diffondendo anche il culto di Dioniso, il dio del vino e dell’ebbrezza. Gli stessi Etruschi ebbero una divinità omologa, Fufluns e, come i Greci, svilupparono un proprio rituale legato al vino. Potremmo, perciò, ipotizzare che anche i Piceni imitarono i loro vicini, imparando a sfruttare l’enorme potenziale vitivinicolo e commerciale delle loro terre. Verosimilmente, aspetti sociali ed economici assunsero una valenza cultuale, come può desumersi dalle forme ceramiche tipiche esclusive di quest’area.
Mappa della regione Marche con aree di produzione vitivinicole e siti dei ritrovamenti archeologici piceni.
Bibliografia essenziale:
AA. VV., Il vino in Italia, Milano 2015
Blakeway A., Prolegomena to the Study of Greek Commerce with Italy, Sicily and France in the Eight and Seventh Centuries, in «The Annual of British School of Athens», 33, pp. 170-208
Bianchi Bandinelli R., Torelli M., L’arte dell’antichità classica, Torino, 2010
Buono R., Vallariello G., Introduzione e diffusione della vite (Vitis vinifera L.) in Italia, in “Delpinoa”44, 2002, pp. 39-51
Cerchiai L., Il programma figurativo dell’Hydria Ricci, in «Antike Kunst», 38, H. 2 1995, pp. 81-91
Gambari F. M., I celti e il vino, Biella, 1998
Forni G., Quando e come sorse la viticoltura in Italia, in «Archeologia della vite e del vino in Etruria», a cura di A. Ciacci, P. Rendini, A. Zifferero, pp. 69-81, Siena 2007
Torelli M., Gli Etruschi, Milano, 2000
Unwin T., Storia del vino: geografie, culture e miti dall’antichità ai giorni nostri, Roma, 1996
Il vino è una bevanda essenziale nella nostra cultura e da sempre ha rivestito un’importanza centrale. Ancora nel mondo contadino fino a pochi decenni fa, la vendemmia costituiva un rito, nel quale confluiva una complessa e profonda simbologia. Cerchiamo di ripercorrere le origini della viticoltura nella nostra terra: il Piceno.
Il vino è ed è stato uno dei simboli sociali più importanti per la storia dei popoli del Mediterraneo. Gli archeologi hanno datato addirittura al 5100 a.C. il primo rinvenimento di una giara, contenente i resti di una bevanda che può essere considerata l’antenata del nostro vino.
Tracce di proto-stabilimenti vinicoli sono attestate in Armenia, nella città di Areni, ed in Turchia, alle pendici del Tauros. Da queste aree, la coltivazione della vite si è verosimilmente diffusa in tutto il Medio Oriente: il Monte Ararat, la Mesopotamia e l’Egitto sono le prime regioni dove la vite è stata allevata per la produzione della preziosa bevanda. Non è un caso che nell’epopea sumera di Gilgamesh (Tavola IX), nella Bibbia (Genesi 9, 20-27) e nel mito egiziano di Osiride, la vendemmia costituisca un tema rilevante.
Andando avanti nel tempo, la viticoltura è stata esportata in tutto il Mediterraneo, grazie a popoli dediti al commercio e alla navigazione: i Micenei l’hanno importata in Grecia, i Fenici nelle colonie. Ciò è accaduto grosso modo fra la seconda metà del II millennio a.C. e l’inizio del I millennio a.C.
Il poeta greco Esiodo (VIII secolo a. C.) ci ha lasciato una descrizione molto precisa d’una tecnica di allevamento e vinificazione:
«Quando poi Orione e Sirio sono giunti a mezzo del cielo, e Aurora dalle dita di rosa riesce a vedere Arturo, allora, o Perse, raccogli tutti i grappoli d’uva e portali a casa; esponili al sole per dieci giorni e dieci notti; quindi per cinque giorni lasciali all’ombra, ed al sesto versa nei recipienti il dono di Dioniso ricco di letizie» (Le opere e i giorni, vv. 609-617).
In particolare, in questo passo Esiodo si riferisce ad una tecnica di vinificazione tipica della Beozia, che ricorda molto da vicino la produzione dell’odierno passito.
Il vino ha ricoperto un ruolo così centrale nella cultura dell’antica Grecia che anche gli ecisti (i capi scelti per le spedizioni delle colonizzazioni) portavano dalla madrepatria tralci di uva da impiantare nelle nuove colonie. Così, attorno all’VIII secolo a. C., i Greci importarono anche in Italia i loro vitigni. I Greci utilizzavano un tipo di coltivazione detta “ad alberello”: senza sostegni o con paletti semplici. Nell’Antichità, tale tecnica è descritta accuratamente da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (I secolo a.C.).
La viticoltura italica di matrice greca è attestata figurativamente nella produzione di ceramiche decorate, che intorno al VI secolo a. C. prendono forme e nomi sempre più specifici, in relazione alla loro funzione. È interessante notare che gli storici dell’antica Grecia per lungo tempo hanno chiamato l’Italia con il nome di Enotria, ovvero la terra abitata dagli Enotri”, popolo del Sud Italia così chiamato in onore del loro capostipite: Enotro. Il nome Enotro deriverebbe, a sua volta, dal termine greco oinotron, cioè “palo da vigna”. Ciò confermerebbe il fatto che le popolazioni italiche possedessero una tecnica autoctona di viticoltura (con sostegno), ben diffusa nell’Italia meridionale. Il sostegno poteva essere costituito da un palo o dal tronco di un’altra specie arborea, come l’olmo o il leccio: si parla in tal caso di vite maritata. L’uso del palo in vigna caratterizzerebbe tutti i popoli italici preromani, a differenza dei Greci.
Scena di viticoltura: particolare dell’hydria Ricci (VII sec. a. C.), conservata a Roma nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
In Italia, prima dell’arrivo dei Greci, la vite era già coltivata, anche se solo nella sua specie selvatica. Sin dall’VIII a.C., nella Valdarno, gli Etruschi si servivano del frutto della vitis vinifera sylvestris, cioè la forma selvatica della vitis vinifera sativa, diffusasi attraverso la mediazione greca. Ben presto gli Etruschi si resero conto che l’addomesticamento della vite era essenziale per migliorare la resa della pianta. Per tale motivo, ne adottarono la coltivazione, attraverso tecniche più adatte ai loro climi e alle loro terre. Così, mentre nella Magna Grecia i coloni diffondevano la viticoltura ad alberello, nell’Italia centro-settentrionale gli Etruschi sviluppavano la viticoltura con sostegno. All’area della loro massima espansione coincide la diffusione della coltivazione della vite a sostegno vivo, sia in Campania che nell’Italia centro-settentrionale.
Molti studiosi hanno parlato di una sorta di “frontiera nascosta” in Campania, tra gli Etruschi di Capua e i Calcidesi di Cuma, che potrebbe essere geograficamente identificata con il corso del fiume Sele.