In passato per Fermano si indicarono due realtà territoriali analoghe, a seconda delle vicissitudini storico-politiche che unirono le due principali città, Fermo ed Ascoli, in un comune destino. Fermano fu a volte sinonimo diPiceno, ma più spesso ne indicò una porzione, generalmente coincidente con le attuali Marche meridionali.
Un documento del 983 d. C. attesta per la prima volte l’esistenza della Marca Fermana (Marchia Firmana), che fu una parte del Ducato Longobardo di Spoleto. Il suo territorio era compreso tra il fiume Musone ad nord e il Sangro a sud e comprendeva i Comitati di Camerino, Ascoli Piceno, le zone di Chieti e Teramo. In seguito alle complesse vicende storiche che videro antagonisti il papa e il re dei Normanni, la Marca Fermana si ridusse alla sola area delle Marche meridionali: nel 1080 il fiume Tronto fu preso come confine naturale tra lo Stato della Chiesa e il regno normanno.
Vista su Petritoli (FM)
Nel XIV secolo lo Stato Pontificio annetté completamente la Marca Fermana, che rimase assoggettata a Roma fino all’Unità d’Italia. Nel 1860, Fermo ed il suo territorio entrarono a far parte della provincia di Ascoli Piceno, non senza proteste: i fermani rivendicarono a lungo il loro diritto di trasferire nella loro città il capuologo di provincia. Ciò è avvenuto con la costituzione della provincia di Fermo nel 2009, che per la prima nella storia ha separato politicamente i due territori. Oggi, dunque, per “Fermano” si intende il territorio compreso da tutti i comuni che ne fanno parte.
Foto del pittore appesa nel suo studio (Casa Museo Licini).
Osvaldo Licini nacque a Monte Vidon Corrado il 20 Marzo 1894, da genitori entrambi creativi: padre cartellonista e madre direttrice di un atelier di moda. Poco dopo la sua nascita, i suoi si trasferirono a Parigi ed egli restò a vivere nel paese natale, dove trascorse i primi anni di vita con i nonni paterni.
Verso il 1911 il giovane Licini si trasferì a Bologna. Qui si iscrisse al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti. Nel 1914, sempre nel capoluogo emiliano, organizzò la sua prima esposizione insieme al compagno di corsi Giorgio Morandi, Mario Bacchelli, Severo Pozzati e Giacomo Vespignani. La collettiva fu subito definita la “mostra dei secessionisti”, per via del loro spirito anti-accademico, sottolineato dalla presenza di Marinetti, presente all’apertura. In quegli anni, Licini fu seguace del movimento futurista, di cui cercò di cogliere lo spirito non solo con il pennello, ma anche con la penna: fu autore di una raccolta di storie musicate intitolata “I racconti di Bruto”.
Dopo il diploma, andò a studiare scultura all’Accademia di Firenze, ma il suo corso di studi fu interrotto dallo scoppio della Grande Guerra: nel 1915 partì soldato e venne ferito ad una gamba. Fu proprio durante la convalescenza che conobbe la donna che sarebbe diventata la madre del suo unico figlio naturale, Paolo.
Nel 1917 si trasferì a Parigi, che in quegli anni era la capitale mondiale della cultura: un crogiuolo di musicisti, artisti, letterati e filosofi. Nella capitale francese, ebbe la straordinaria opportunità di conoscere Picasso e strinse amicizia con Modigliani. Licini cominciò a dividersi fra Firenze e Parigi, con permanenze più o meno lunghe a Monte Vidon Corrado, Montefalcone, Porto San Giorgio e Fermo. In quest’ultima divenne un insegnante del prestigioso Istituto Tecnico Industriale di Fermo, continuando allo stesso tempo ad esporre le sue opere nella capitale francese.
Nel 1926 sposò la pittrice svedese Nanny Hellström, decidendo di trasferirsi in pianta stabile nel paese natale, Monte Vidon Corrado. La “vita di provincia” non frenò la sua carriera artistica, che anzi divenne sempre più impegnativa e fitta d’appuntamenti, con esposizioni a Milano, Parigi, Roma, Basilea, Berna e Stoccolma.
A proposito dello stile pittorico di quegli anni, Licini stesso scrisse: “La mia pittura preastratta è pittura fauve che viene da Cèzanne, Van Gogh e Matisse, tra i maestri di prim’ordine, e i miei disegni lo possono provare”.
Nel 1935, il suo stile mutò direzione: fu uno dei primissimi artisti italiani a sperimentare l’astrattismo che conobbe a Parigi, attraverso le opere di Vasilij Kandiskij, Klee e Man Ray.
A partire dagli anni ’40, nonostante il fermo proposito di non esporre nulla per tutto il periodo della Seconda guerra mondiale, cominciò ad avvicinarsi al surrealismocon influenze simboliste e nordiche, che, unendosi tra loro, davano forma ad un mondo fantastico, abitato da creature inquietanti, eroiche ed affascinanti. Nacquero così le Amalassunte, le sue più amate creature (1945). L’Amalassunta è, come ha scritto Licini stesso poi, “la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”.
Nell’aprile del 1958 Osvaldo Licini espose per la terza volta alla Biennale di Venezia e fu insignito del Gran Premio per la Pittura. Di lì a poco, si spense nella sua casa di Monte Vidon Corrado, in un ritirato rifugio, tra le sue amate colline marchigiane.
Come per per altri uomini e donne d’arte di ogni luogo e tempo, anche per Licini il paesaggio fu un elemento fondamentale nella sua opera. Il paesaggio idilliaco di Monte Vidon Corrado si legò in modo profondo alla sua pittura, tanto da diventarne una componente essenziale. Licini, benché riservato, fu una personalità molto nota e amata nel suo paese, tanto da influenzarne la vita politica. I suoi concittadini, ammaliati dalla sua personalità, lo elessero sindaco per ben due volte, candidato con il Partito Comunista Italiano.
Piceno (Picenum) è il nome che i Romani diedero alla loro Quinta Regio, desumendone il nome dal popolo dei Piceni, che abitavano questa terra già dall’XI secolo a. C.
Centro storico di Montedinove (AP)
L’antico Piceno abbracciava grossomodo le Marche meridionali, l’attuale provincia di Teramo e una parte dell’attuale provincia di Pescara. I suoi confini naturali erano: il fiume Esino a nord, l’Appennino ad Ovest, il fiume Saline a sud e il mar Adriatico ad est.
Oggi si è soliti riferirsi al Piceno, intendendo la sola provincia di Ascoli Piceno.
Nato a Fermo l’8 settembre 1841, fu medico e clinico di fama internazionale. Laureatosi a Firenze nel 1864, si perfezionò a Parigi e Berlino.
Nel 1870 divenne assistente del Baccelli a Roma; quindi, nel 1875 fu inviato a Bologna, dove divenne docente di clinica medica, ruolo che ricoprì per quarant’anni, fino al 1916. Morì a Bologna l’11 novembre nel 1932.
Fu docente di grande fama, chiamato “il sommo dei clinici”. I suoi scritti ebbero vasta circolazione e furono tradotti in varie lingue. Fra i suoi studi ricordiamo: Teoria della febbre, Meccanismo di compenso fisiopatologico del cuore, Saggio sulle perizie medico legali, Lezioni di clinica medica. Importanti anche le ricerche sulle malattie cerebrali, in particolare sui tumori intracranici, sulle affezioni sifilitiche del cervello, sull’ascesso cerebrale cronico.
Murri fu anche deputato parlamentare e consigliere superiore della pubblica istruzione. A Fermo, gli è intitolato l’Ospedale Civile, che ha sede nell’omonima via.
Bibliografia essenziale: Dizionario storico-biografico dei marchigiani, Il lavoro editoriale, 1993, tomo II.
Tra Marche e Umbria, nel bel mezzo del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, si cela il mito della cosiddetta Sybilla Appenninica o Picena.
La Sibilla (utilizziamo la grafia italiana) era una profetessa, che aveva il potere di predire il futuro di chi la consultava, durante uno stato di trance mistica. La sua figura, dai contorni non perfettamente delineati, deriverebbe da culti politeistici orientali, che furono importati prima del IX secolo a. C. nella vicina Grecia, dove la sua presenza storica è ben attestata. Un frammento del filosofo Eraclito di Efeso – vissuto fra il VI e il V secolo a. C. – costituisce la prima fonte scritta sulla Sibilla. Egli la descrive come “colei che con voce disadorna dice cose che non fanno ridere [DK 92]”. Le sue previsioni, infatti, erano generalmente terribili e preannunciavano quasi sempre sventure.
Nell’antica Grecia, esisteva già una figura profetica, con la quale condivideva probabilmente alcuni elementi: la Pizia del tempio di Apollo a Delfi. Contrariamente a quest’ultima, però, la Sibilla non sarebbe stata legata a nessun particolare luogo e forse neppure ad una particolare divinità; ciò le permise di “muoversi”, di volta in volta, da un luogo ad un altro.
Ritroviamo la Sibilla in tutto il bacino del Mediterraneo, Italia compresa. Qui, nel I secolo d.C., Marco Terenzio Varrone, nel suo Antiquitates Rerum divinarum, stilò un catalogo di dieci Sibille, che da allora è divenuto canonico. Esso comprende: la Sibilla Persica, la Libica, la Delfica, la Cimmeria, l’Eritrea, la Samia, la Cumana, l’Ellespontica, la Frigia e la Tiburtina. Precisiamo che spesso vengono citate come fonti attestanti la presenza di una Sybilla Picena anche passi del De Vita Cesareum di Svetonio (70-126 d. C.) e dell’Historia Augusta di Trebellio Pollione (IV sec.). In realtà, però, i due autori non ne parlano affatto.
Lattanzio (III-IV sec.) e Agostino di Ippona (354-430 d. C.) ripresero il decalogo delle Sibille, impiantandolo nella tradizione cristiana: nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo, le Sibille furono trasformate in annunciatrici del Signore.
Seguendo Varrone, dunque, in epoca antica non sarebbe attestata l’esistenza di una Sybilla Picena o Appenninica; le uniche presenti in terra italica sarebbero state la Sibilla Cumana e la Sibilla Tiburtina. Questa, in particolare, è di nostro interesse, in quanto è citata da un autore francese del XII secolo, Philipe De Thaon. Costui citò un’antica tradizione latina secondo la quale la Sibilla Tiburtina avrebbe spostato la sua “sede” dal Campidoglio all’Aventino (Aventin). Per un errore di trascrizione o d’interpretazione, Thaon scrisse Apenin anziché Aventin: ecco probabilmente spiegata l’origine della nostra Sibilla, che in realtà sarebbe un costrutto squisitamente medievale.
La leggenda della Sybilla Picena diede vita nei secoli successivi ad un nutrito filone di leggende e romanzi cavallereschi, quali, ad esempio, Le avventure di Guerrino detto il Meschino di Andrea da Barberino (1370 ca.- dopo il 1431), oppure Paradis de la Reine di Antoine de la Sale (1388ca – dopo il 1461). Grazie alla “leggenda” della Sibilla, questi autori riscossero un discreto successo, già a partire dal XV secolo.
Tale genere di testi fu dunque alla base della caratterizzazione della Sybilla dell’Appennino, i cui tratti delineano una figura profondamente “distorta” rispetto alle Sibille dell’Antichità. La Sibilla nostrana è unadonna-maga, strega, seduttrice, complice del demoniaco: un mix di elementi, che trovavano un terreno davvero fertile nel superstizioso centro Italia. I racconti di maghi, streghe malefiche e della Sibilla seduttrice erano utili per la predicazione francescana, intenta a sradicare movimenti eretici e i riti di chiara derivazione pagana, che ancora persistevano da secoli nelle nostre terre dell’Appennino umbro-marchigiano.
La Sybilla Picena appartiene alla leggenda, che si mescola ad una tradizione antica, storicamente attestata, che tuttavia non appartiene all’Appennino umbro-marchigiano. Ciononostante, la sua presenza aleatoria anche nel centro Italia è stato un elemento fondante per la cultura del territorio, tanto che la Sibilla assurge a personaggio simbolo del Piceno.
La Sybilla Picena ha riscosso notevole interesse anche negli ultimi anni, grazie ad autori locali che le hanno dedicato numerosi scritti, enfatizzandone gli elementi più suggestivi, in un quadro letterario fantasy e/o esoterico.
Bibliografia essenziale:
Tea Fonzi, La Sibilla dell’Appennino: una risorsa dimenticata, in “Il Capitale Culturale” n. 11, Macerata 2015, pp. 483-518.