I ragazzi e il folkore: Voci della memoria

Locandine di Voci della memoria

Ieri, sabato 28 maggio, si è tenuta la decima edizioni di Voci della memoria, rassegna del folklore per ragazzi organizzata dal Centro di studio sul folklore Piceno di Ortezzano.

Nella splendida cornice del teatro Alaleona di Montegiorgio, i ragazzi delle scuole primarie di Campofilone, Ponzano, Monsampietro Morico, e della scuola secondaria di primo grado di Montegiorgio si sono esibiti con pièce teatrali ispirate ad aspetti della cultura popolare come la raccolta delle erbe spontanee, la vita spirituale, gli antichi mestieri.

Lo spettacolo è stato arricchito dalle esibizioni di saltarello del gruppo folkloristico Ortensia di Ortezzano, accompagnato dalla musica dei Ceca Face.

Quest’anno si è trattato di un’appuntamento speciale, interamente dedicato alla memoria della maestra Emanuela Angelini, fortemente impegnata nella valorizzazione e nella divulgazione della cultura popolare fra le nuove generazioni.

Lo studio attento della cultura tradizionale ha un duplice ed essenziale fine: tramandare la memoria di un passato recente di cui stiamo perdendo traccia a causa dei profondi mutamenti socio-economici del secolo scorso; coltivare le nostre radici affinché siano più che mero folklore, ma uno stimolo per conciliare tradizione e innovazione, conservazione e progresso, passato e futuro.

I canti di questua

Suonatori (Fonte: ICCD, http://www.fotografia.iccd.beniculturali.it/index.php?r=collezioni/scheda&id=611559)
Suonatori (Fonte: ICCD, http://www.fotografia.iccd.beniculturali.it/index.php?r=collezioni/scheda&id=611559)

All’interno della sfera dei canti tradizionali  marchigiani, i cosiddetti canti di questua sono quasi ovunque presenti in modo costante. Anche in questo caso l’etimologia ci aiuta a capire il senso della parola: questua deriva dal latino quaerere, cioè chiedere, andare in cerca. Questi canti erano richieste di offerte eseguite da gruppi itineranti di musici e cantori, che attraversavano le campagne durante le festività agricole.

I canti di questua erano “eventi rituali strettamente connessi con lo svolgimento calendariale dell’anno agricolo”. Come gli antichissimi rituali dei salii erano collegati ai riti di passaggio dei giovani, così i canti di questua erano connessi al ciclo delle festività invernali e primaverili:

  • Capodanno-Epifania;
  • Pasquella (il 5 gennaio);
  • Sant’Antonio (il 16 gennaio);
  • Passione di San Giuseppe (17 marzo);
  • Scacciamarzo (31 marzo);
  • le due settimane che precedono la Settimana Santa, con i canti Alle anime sante del Purgatorio e de la Passione di Cristo.

Si possono inoltre annoverare tra i canti di questua anche canti per le festività agricole estive:

  • il Cantamaggio (tra il 30 aprile e il primo maggio);
  • il canto Alle anime sante del Purgatorio (Ferragosto).

Alcune di esse si ritrovano con costanza in tutte le zone delle Marche, in special modo nell’anconetano, nel maceratese, nel Fermano e nel Piceno.

Nell’antico calendario romano queste stesse date coincidevano grossomodo alle festività legate ai culti agrari, in stretta connessione alle feste del Sole, perlopiù celebrate nel periodo invernale/primaverile: citiamo, ad esempio, i Liberalia (17 marzo), in cui i sacerdoti salii danzavano in processione per le strade di Roma.

Il Cristianesimo è poi riuscito, con una puntuale operazione di sincretismo religioso, a sovrapporsi e a sostituirsi ai rituali e alle feste del calendario pagano. Le feste pagane,come dice il nome stesso, erano ben più radicate nei pagi, cioè nei villaggi, dove il ciclo della vita agreste rivestiva un ruolo importantissimo. Per questo motivo l’entroterra marchigiano, umbro, abruzzese e laziale hanno preservato a lungo tracce di questi rituali nelle tradizioni popolari.

Queste feste avevano una cadenza ben precisa proprio perché erano un modo di festeggiare l’allungarsi delle giornate, ricollegandosi appunto al culto del Sol Invictus, che via via fu sostituito poi dalla figura di Cristo con l’avvento della nuova religione cristiana.

I canti di questua seguivano un rituale schematico ben predefinito:

  • i questuanti si presentavano al vergaro/vergara;
  • chiedevano il permesso di cantare;
  • al canto e alla richiesta seguiva un’offerta, solitamente in natura;
  • se l’offerta veniva elargita seguiva un canto di ringraziamento;
  • se il vergaro rifiutava l’offerta, la famiglia veniva schernita a suon di stornelli scherzosi, come ad esempio: “E da tanto cantare poi non ci hai dato niente / guarda che bbella gente che Cristo fa campa’”;
  • in conclusione si eseguiva un saltarello, danzato dagli abitanti della casa.

Il gruppo dei questuanti, nelle Marche, era generalmente composto da un trio strumentale (organetto, cembalo e triangolo) con l’aggiunta delle voci maschili.

Bibliografia essenziale:
http://www.blogfoolk.com/2013/05/i-canti-rituali-di-questua-della.html
Leydi R., Mantovani S., Dizionario della Musica Popolare europea, Milano, 1970
Pietrucci G., Cultura Popolare Marchigiana, Canti e testi tradizionali raccolti in Vallesina, Jesi, 1985

Le origini del saltarello marchigiano

Il saltarello è un ballo tradizionale di corteggiamento del Centro Italia, diffuso in special modo nelle Marche, in Umbria, Lazio, Abruzzo e Molise. Sul finire del XVII secolo, il termine “saltarello” si è diffuso anche nelle regioni centro-settentrionali (Emilia Romagna, Veneto, Toscana), benché in realtà non indicasse il medesimo tipo di danza.

Ogni regione, ma possiamo dire ogni paese, aveva in passato una propria variante di saltarello. Non esiste dunque una coreografia uniformata: per lo più il saltarello si balla in coppia (uomo-donna, ma anche uomo-uomo o donna-donna), con rare forme di danza a quattro, in cerchio. È una danza veloce, in ritmo di 6/8 o 2/4.

Per meglio comprendere la storia di questo ballo, è doveroso fare una breve riflessione di carattere etimologico. “Saltarello” deriverebbe dalla parola latina saltatio, una danza sacra romana, che i sacerdoti Salii eseguivano durante determinate feste e occasioni importanti per la comunità.

Coperchio bronzeo piceno con rituale di danza
Coperchio bronzeo piceno con rito di fondazione proveniente da San Severino e conservato presso il Museo Archeologico Nazionale delle Marche

Le origini antichissime della saltatio sono provate dal fatto che i sacerdoti Salii, durante le loro esibizioni, indossassero dei costumi che rievocavano l’abbigliamento degli antichi guerrieri centro-italici dell’VIII a.C. Veri e propri “abiti fossili”, i costumi cerimoniali dei Salii comprendevano un elmo dal forte richiamo villanoviano, una spada corta e, addirittura, un kardiophylax, cioè una corazza per il petto, largamente in uso sia tra gli Etruschi (si veda la “tomba del Guerriero” di Tarquinia), sia tra i Piceni (basti pensare al guerriero di Capestrano).

I ritrovamenti archeologici nelle Marche testimoniano che i Piceni avessero un rituale di danza armata, con ogni probabilità precedente o quantomeno coeva, a quella in uso tra i Romani. Fra tutti, il famoso coperchio in bronzo proveniente da una tomba picena di Pitino, a San Severino Marche, ritrae quattro uomini armati dalla forte connotazione itifallica, che danzano in cerchio attorno ad un totem. I quattro guerrieri, vestiti di tutto punto con grandi elmi, lance e scudi, si stanno cimentando in quella che, con ogni probabilità, è una danza propiziatoria per un rito di passaggio: ognuno di loro esegue dei passi individuali differenti. Le braccia alzate indicano che stanno danzando in una particolarissima coreografia di gruppo.

Coperchio bronzeo piceno con rito di fondazione, conservato presso il Museo Archeologico Nazionale delle MarcheIn un altro coperchio bronzeo piceno (conservato anch’esso al Museo Archeologico Nazionale delle Marche), la scena rappresentata è ben più complessa: qui sembra esservi un’intera comunità impegnata nel rituale sacro della saltatio armata. Tutte le figure stilizzate sono state ritratte in atteggiamento di danza (con le braccia alzate), tranne una, intenta a condurre un aratro trainato da un toro. Ciò potrebbe indicare che siamo di fronte ad un rito di fondazione, un importante cerimoniale comunitario e sociale, dalla forte valenza sacrale.

Nelle bellicose popolazioni dell’Italia preromana, le danze di origine sacrale-militare debbono aver lasciato una profonda influenza nel popolo, secondo uno schema diffuso nel corso della storia, per cui elementi di origine religiosa sono stati “reinterpretati” nel mondo profano. Non è dunque un caso che i Romani chiamassero saltationes le danze di estrazione popolare. Con il tramonto dell’Impero, le testimonianze sulla danza si interrompono: l’Alto Medioevo tace sulle forme coreutiche in uso nella società. Le fonti iconografiche e scritte ricominciano ad essere copiose a partire dal XIV secolo.

Il primo documento noto riguardante il saltarello è il manoscritto Add. 29987, conservato al British Museum di Londra. Si tratta di un manoscritto toscano compilato fra il XIV e il XV secolo e appartenuto ai Medici. Contiene una miscellanea di brani musicali: madrigali, ballate, motetti e danze, fra cui alcuni saltarelli. Nel 1455, il celebre maestro di danza Antonio Cornazzano, nel suo trattato Libro dell’arte del danzare, descrive il saltarello come “ballo de villa” (danza rustica), contrapponendola alle danze aristocratiche.

Il saltarello si afferma come una delle quattro forme di danza di corte fino al XVI secolo, accanto alla bassadanza, alla quaternaria e alla piva. Solo tra il XVII e il XVIII secolo compaiono i primi documenti che lo attestano quale danza popolare. Non è chiaro come il saltarello “popolare” abbia influenzato il saltarello “di corte” e viceversa. Deve esservi stata una prolungata commistione fra le due forme: depurato dei suoi elementi più rustici, è diventato danza di corte. Non è escluso che alcuni elementi più aristocratici fossero poi riassorbiti dai danzatori popolari, come nella castellana, considerata una forma “urbana” di saltarello.

Dal XVII secolo il saltarello si afferma come la principale danza tradizionale del centro Italia. Le sue varianti locali sono ancora oggi conosciute e praticate, anche se durante il secolo scorso, a causa della progressiva industrializzazione, ha perso i suoi caratteri originari.

Frontespizio dei “Canti popolareschi piceni” (1940)

Le melodie del saltarello sono state a lungo tramandate oralmente. Gli studi etnomusicologi del secolo scorso hanno contribuito a preservarne la conoscenza: pionieristiche sono state le trascrizioni di Giovanni Ginobili, contenute nei volumetti dei Canti popolareschi piceni, redatti insieme al compositore maceratese Lino Liviabella.

 

Per quanto riguarda lo strumentario, il saltarello si esegue accompagnato da organetto e tamburello. In provincia di Fabriano, oltre al tipico organetto, sono presenti il violino e il violone, ma non il tamburello. Il saltarello costituisce, inoltre, la base melodica e metrico-ritmica di molti canti tradizionali, fra cui i canti a dispetto e alcuni canti di questua.

Tamburelli con sonagli e decorazioni, provenienti dalla zona del maceratase.
Tamburelli con sonagli e decorazioni, provenienti dalla zona del maceratase.

Non potremo mai dire con certezza quanto le saltationes antiche e il saltarello fossero coreograficamente vicini a quello odierno. Una linea di continuità tra le due forme di danza può essere rintracciata nell’intrinseca valenza religiosa, con elementi di chiara matrice erotica che richiamano i riti legati alla fertilità femminile e alla fecondità del mondo agreste. La commistione di elementi al limite tra sacro e profano è indubbiamente presente nel saltarello tradizionale e fa capo ad un patrimonio culturale senza tempo, da ricordare e da tramandare.

Il saltarello contiene ancora l’anima di chi vive nel Piceno: i suoi passi e le sue musiche non sono un semplice ballo, ma un modo di intendere la vita, di esorcizzare il male e di celebrare la pienezza che solo l’amore per la Natura può testimoniare. Ballare il saltarello è un modo per capire da dove veniamo, chi continuiamo ad essere, dove possiamo andare.

Ringraziamo l’attività Rocchetti Strumenti Musicali, per averci consentito di fotografare i tamburelli storici, le cui immagini sono contenute nell’articolo.

Bibliografia essenziale:
Bessone L. & Scuderi R., Manuale di Storia romana, Bologna, 1994.
Brelich A., Paides e Parthenoi, Roma, 1969.
Cirilli R., Les prêtres danseurs de Rome, Parigi, 1913.
Colacicchi L., v. Saltarello, in “Enciclopedia Italiana Treccani”, Roma, 1936.
Colombo G., Florio C., Alvaro S., Il cammino dell’uomo. Civiltà e cultura, Roma, 1991.
Torelli M., Riti di passaggio maschili di Roma arcaica, in “Mélanges de l’Ecole française de Rome”, vol. 102, n. 1, 1990, pp. 93-106.
Treccani online, voce “Antonio Cornazzano”, in “Dizionario biografico degli Italiani”; http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/, link consultato in data 27 agosto 2016, ore 15:00.