Al di là delle ovvie difficoltà logistiche e gestionali che affrontano i piccoli Comuni per poter garantire un servizio di apertura al pubblico, crediamo che il futuro sarà così: non grandi musei in cui gli oggetti esposti siano stati strappati dal contesto di origine, ma un museo sparso, fatto di piccole realtà in cui sia possibile ammirare la bellezza all’interno della costellazione cui appartiene; costellazione fatta di natura, cultura, storia, uomo, società.
Il Museo dell’Arte ceramica di Ascoli Piceno è ospitato nello splendido chiostro del complesso medievale di San Tommaso. Inaugurato nel 2007, il museo compendia la storia della ceramica nella città a partire dalle prime manifatture del XV secolo.
I piatti di Montelupo
Il Museo deve molto al mecenatismo del chirurgo Antonio Ceci che donò la sua collezione alla città di Ascoli Piceno. Fra i pezzi più pregevoli del fondo Ceci vanno ricordati i piatti di Montelupo del XVII secolo, con figure dai tratti caricaturali, e un raro piatto settecentesco uscito dalle storiche fornaci di Doccia del marchese Carlo Ginori.
Mattonella con paesaggio, esempio di ceramica di Castelli
Di notevole pregio artistico sono le mattonelle provenienti dal convento ascolano di Sant’Angelo Magno. Le maioliche sono state prodotte fra il Seicento e il Settecento a Castelli, località abruzzese celeberrima per la produzione di ceramica. I pezzi in esposizione sono opera dei maggiori artisti castellani: Francesco e Carlo Antonio Grue, Berardino Gentili.
Di epoca più recente, Ottocento e Novecento, è possibile ammirare vasi, piatti, urne, caffettiere e tazze realizzate dalla manifattura Paci (1808-1856), dalla manifatture Matricardi (1920-1929) e dalla Manifattura Fama.
Il Museo dispone di un attrezzatissimo laboratorio didattico corredato di tornio e forni.
Guido Piovene, giornalista e scrittore italiano, vissuto tra il 1907 e il 1974, è celebre per aver scritto Viaggio in Italia, una straordinaria guida letteraria del nostro Bel Paese. Il libro fu il frutto di un reportage che la RAI gli commissionò per un ciclo di trasmissioni radiofoniche, andate in onda tra il 1953 e il 1956. Nonostante siano passati più di cinquant’anni, lo sguardo attento, quasi profetico, dell’autore e la sua maestria letteraria ne fanno un’opera ancora attuale.
Leggere un libro di questo tipo oggi ha lo stesso significato della lettura delle Periegesi di Pausania o della Geografia di Strabone: è uno studio del passato (in questo caso, il nostro passato), che ci fa notare cosa è cambiato e cosa no da quel momento e ci dà lo spunto per riflettere sul nostro presente.
Ritratto fotografico di Guido Piovene (fonte: Wikipedia).
Lo stesso Piovene, attraversando la nostra Penisola, fotografò un Paese in continuo movimento/cambiamento: “Mentre percorrevo l’Italia, e scrivevo dopo ogni tappa quello che avevo appena visto, la situazione mi cambiava in parte alle spalle… Industrie si chiudevano, altre si aprivano; decadevano prefetti e sindaci; nascevano nuove province”.
In questa sua fotografia, l’immagine delle Marche è pittoresca e ancora attuale e abbiamo voluto riproporla, perchè dà piacere rileggerla. Di seguito abbiamo trascritto quelle che per noi sono le parti salienti del capitolo che Piovene ha dedicato alle Marche: è curioso, per noi marchigiani, vedere come un vicentino abbia saputo cogliere con così tanto acume lo spirito della nostra terra.
Le Marche sono un plurale. Il nord ha tinta romagnola; l’influenza toscana ed umbra è manifesta lungo la dorsale appenninica; la provincia di Ascoli Piceno è un’anticamera dell’Abruzzo e della Sabina. Ancona, città marinara, fa parte per sé stessa. In uno spazio così breve, anche la lingua muta e ha impronte romagnole, toscane, umbre, abruzzesi, secondo i luoghi. Tanti diversi spiriti ed influenze, palesi anche nel paesaggio, sembrano distillarsi e compenetrarsi nel tratto più centrale, in cui sorgono Macerata, Recanati, Loreto, Camerino. Nessuna città marchigiana ha un vero predominio nella regione. Verso Bologna gravita il pesarese e parte dell’anconetano; il resto verso Roma, supremo miraggio per tutti.
Ma per quanto ne accolgano i riverberi, le Marche non somigliano veramente né alla Toscana né alla Romagna né all’Abruzzo né all’Umbria. […] Più ancora dell’Emilia e dello stesso Veneto, le Marche sono la regione dell’incontro con l’Adriatico. Questo piccolo mare qui si spiega più intimo, più libero e silenzioso, con i suoi colori strani, che lo fanno diverso da tutti i mari della terra. Parlo di certi verdi freddi, grigi traslucidi, azzurri striati di rosso, che ricordano i marmi pregiati e le pietre dure. A differenza del Tirreno, l’Adriatico ha colori rari ed eccentrici, il gusto dell’anomalia. Si direbbe che le acque si propongano di imitare materie preziose ed estranee. E la collina marchigiana, volgendosi verso l’interno, è quasi un grande e naturale giardino all’italiana. […] E’ il prototipo del paesaggio idillico pastorale. […]
Se si volesse stabilire qual è il paesaggio italiano più tipico, bisognerebbe indicare le Marche, specie nel maceratese e ai suoi confini.
L’Italia nel suo insieme una specie di prisma, nel quale sembrano riflettersi tutti i paesaggi del Terra, facendo atto di presenza in proporzioni moderate e armonizzandosi l’un l’altro.
L’Italia, con i suoi paesaggi, è un distillato del mondo. Le Marche dell’Italia.
Qui abbiamo l’esempio più integro di quel paesaggio medio, dolce, senza mollezza, equilibrato, moderato, quasi che l’uomo stesso ne avesse fornito il disegno. […]
E’ abitudine dei viaggiatori stranieri, cercando quale delle nostre regioni dia il senso peculiare del nostro Paese, indicare la Toscana e l’Umbria. Credo che questo accada perchè di solito le Marche sono fuori dai lori itinerari. Questa regione, infatti, non è conosciuta ai più per visione diretta in proporzione alla sua grande bellezza naturale e artistica. […]
Ma forse alla popolarità delle Marche nuoce anche l’assenza di quegli aspetti stravaganti, sorprendenti, eccitanti, che attirano le fantasie in cerca dello straordinario. Non si ritrova nelle Marche né il primitivo né l’estremamente moderno. Nulla di iperbolico. E’ una terra filtrata, civile, la più classica delle nostre terre. […]
Difficile trovare altrove una così esatta corrispondenza tra gli animi ed il paesaggio. Chi ne cerca le origini storiche ricorda che alla sua origine stanno due razze diverse: i Piceni e gli Umbri, che non riuscirono mai ad assorbirsi a vicenda. Altre influenze, come quella gallica e quella ellenica, gli passarono senza lasciare un’impronta precisa. E due volte le Marche furono sottomesse a lungo da Roma. La prima volta da Roma repubblicana, poi da Roma papale. […]
“Un viaggio nelle Marche, non frettoloso, porta a vedere meraviglie.”
Bibliografia essenziale:
Piovene G., Viaggio in Italia, Le Marche, Milano, 1957.
Ritratto fotografico di Guido Piovene (fonte: Wikipedia).
Se doveste chiedere in giro qual è il vino simbolo delle Marche, molti intenditori vi risponderebbero senza dubbio: “Il Verdicchio!”. Ma se doveste porre la stessa domanda agli anziani del fermano, del maceratese o del piceno, con ogni probabilità ricevereste come risposta: “Lo vi’ cotto!”.
Il vino cotto è una bevanda più unica che rara ed è la più rappresentativa delle tradizioni culinarie e culturali delle Marche meridionali. Alcuni estimatori la farebbero risalire addirittura ai Piceni, che appresero la coltura dei vigneti dai Greci.
Quel che è certo, però, è che già al tempo dei Romani se ne conosceva bene la tecnica di preparazione e gli usi più adatti, sia come bevanda da pasto, sia come rinvigorente. Citato da Plauto e Plinio il Vecchio, ne abbiamo anche una breve descrizione della tecnica di cottura nel De Re Rustica di Columella (libro XII, 20):
“Si faccia cuocere il mosto dal sapore dolcissimo fino a diminuzione di un terzo, quando è cotto si chiama defruntum. Appena raffreddato si travasa nelle botti e lo si ripone per usarne”.
Il procedimento è giunto identico sino ai giorni nostri: a seguito della pigiatura e pressatura delle uve locali (anticamente tutti i vitigni presenti in zona come Caccione, Chiapparone, Passerina, Pecorino, Pagadebit, Galoppa, Santa Maria, Trebbiano e oggi principalmente Sangiovese, Montepulciano, Maceratino), il mosto viene scaldato a fuoco diretto in calderoni di rame, fino a farne evaporare un terzo – spesso con l’aggiunta di qualche aromatizzante. La cottura determina la caramellizzazione degli zuccheri e la formazione di un colore granato profondo.
Botti contenenti vino cotto
A cottura terminata, il mosto caldo decantato viene travasato in botticelle di rovere o castagno e lasciato invecchiare. Solitamente, si usa “rimboccare” il vino cotto invecchiato con del mosto concentrato e non ancora fermentato; tale pratica è tuttavia riservata ai più esperti, perché, se non effettuata con cura, potrebbe compromettere la sua lenta fermentazione.
La cottura del vino è stato un vero colpo d’ingegno, perché permetteva di mantenere inalterate le sue caratteristiche, senza temere che potesse inacetire. Tramandato di generazione in generazione, è stato il metodo migliore per produrre vino anche dalle uve più rovinate o particolarmente acide.
In tempi in cui lo spreco non era permesso e l’aggiunta di solfiti non era tecnicamente possibile, il vino cotto rappresentava un “dolce” tesoretto di cui avere somma cura. Ogni famiglia aveva una sua ricetta segreta, tramandata da padre in figlio: c’è chi aggiungeva una mela cotogna durante la cottura o chi usava mettere dei chiodi di garofano. Le varianti erano moltissime.
Era usanza inaugurare una nuova botticella di vino cotto ad ogni nuovo figlio maschio. Consumato persino nelle occasioni speciali, il vino cotto era ritenuto anche un potente medicinale contro raffreddore e influenza. Di fatto, recenti studi scientifici confermerebbero le sue proprietà antiossidanti.
Oggigiorno il vino cotto è considerato un eccezionale vino da dessert. L’abbinamento più tradizionale è accanto alle castagne arrosto, onde il detto: “Verso Sammartì, li unnici de novembre, je se dà ‘na guardata; se adè chiaro e se te ne va, te ce poli pure ‘mbriacà!” che vuol dire: “Verso San Martino, l’undici di novembre, si va a dare una guardata; se è chiaro e se ne hai voglia, ti ci puoi anche ubriacare!”
Ad oggi, sono due i borghi che vantano le manifestazioni folkloristiche più importanti, incentrate sul vino cotto marchigiano: Loro Piceno e Lapedona. Vi invitiamo a visitarle entrambe!
Bibliografia essenziale: Sersante R., Trattato teorico-pratico dell’arte della vinificazione avutosi riguardo specialmente alle diverse qualità d’uve ed alla temperatura atmosferica degli Abruzzi, Chieti – Tip. Vella, 1856 Plauto, a cura di Faranda G., Pseudolus, Milano, 2000 Columella, De re rustica, disponibile online su: http://www.thelatinlibrary.com/ http://www.vinocottodelpiceno.it/
Uno dei simboli della cucina marchigiana, in particolar modo maceratese e fermana, sono senza ombra di dubbio i vincisgrassi, variante regionale delle lasagne.
I vincisgrassi sono un primo piatto importante delle festività e delle grandi occasioni: ogni ristorante, cuoco o nonna che si rispetti ha la sua ricetta personale, con i suoi segreti tramandati di generazione in generazione. Se vi fermerete a chiedere la ricetta in due posti diversi, difficilmente vi risponderanno allo stesso modo! E questo contribuisce ad aumentare il fascino di questa specialità culinaria marchigiana!
Il testo è presente nella biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo
Per la preparazione si lessa la pasta sfoglia in acqua salata; poi la stessa viene tagliata a strisce, disposte in una teglia strato dopo strato, alternata con un condimento di ragù di carne, frattaglie di pollo, bovino, parmigiano, mozzarella o tartufo.
La prima testimonianza scritta di questo piatto risale al 1779, quando il celebre chef Antonio Nebbia ne tramandò la ricetta ne “Il cuoco maceratese”, con il nome di “Princisgras”. Al capitolo undicesimo, tra la descrizione di torte salate, gnocchi e altri primi piatti, Nebbia descrisse la preparazione della sontuosa “Salza per il Princisgras”:
Prendete una mezza libra de persciutto [circa 150 grammi], facetelo a dadi piccoli, con quattr’once [circa 120 grammi] di tartufari fettati fini; da poi prendete una foglietta [circa mezzo litro] e mezza di latte, stemperatelo in una cazzarola con tre once di farina [circa 90 grammi], mettetelo in un fornello mettendoci del persciutto, e tartufari, maneggiando sempre fino a tanto che comincia a bollire, e deve bollire per mezz’ora; da poi vi metterete mezza libra di pana fresca [150 grammi], mescolando ogni cosa per farla unire insieme; da poi fate una perla di tagliolini con dentro due ovi e quattro rossi; stendetela non tanto fina e tagliatela ad uso di mostaccioli di Napoli [tagliati in forma romboidale], non tanto larghi; cuoceteli con la metà di brodo e la metà di acqua, aggiustati con sale; prendete il piatto che dovete mandare in tavola: potete fare intorno al detto piatto un bordo di pasta a frigè per ritenere in esso piatto la salsa, acciocché non dia fuori quando lo metterete nel forno, mentre gli va fatto prendere un poco di brulì [crosticina]; cotte che avrete le lasagne, cavatele ed incasciatele con formaggio parmiggiano e le andrete aggiustando nel piatto sopraddetto, con un solaro [strato] de salsa, butirro [burro] e formaggio e l’altro de lasagne slargate, e messe in piano, e così andrete facendo per fino che avrete terminato di empire detto piatto; bisogna avvertire che al di sopra deve terminare la salsa con butirro e formaggio parmiggiano e terminato, mettetelo in forno per fargli fare il suo brulì…
Come si legge, si tratta di un piatto piuttosto elaborato, che con ogni probabilità era già presente da tempo nella cucina tradizionale delle Marche. L’origine del nome Princisgras viene solitamente fatta risalire a “Grasso dei Principi”, per indicare tanto la grassezza del piatto in sé, quanto la sontuosa nobiltà dei suoi ingredienti.
La ricetta del Nebbia sembrerebbe essere una variante “in bianco” dei vincisgrassi marchigiani, conditi con prosciutto cotto e tartufo. L’evoluzione nella sua variante “rossa” è quella che, secondo una tradizione locale, fu servita venti anni più tardi, nel 1799, al nobile Alfred von Windisch-Graetz. A seguito di un lungo assedio, le truppe austro-ungariche degli Asburgo riuscirono a riconquistare la città di Ancona, caduta due anni prima in mano alle truppe napoleoniche.
La leggenda narra che ad una delle cuoche a servizio presso una nobile famiglia filo-papale fosse venuta l’idea di sperimentare uno dei piatti del Nebbia, i princisgras, per ringraziare gli austriaci della liberazione di Ancona. Forse fu l’assonanza tra il nome del piatto e il nome del nobile Windisch-Graetz a suggerire alla cuoca di presentare il piatto come Vincisgrassi!
Il ricettario del Nebbia era ampiamente diffuso nelle Marche e non è da escludere che la cuoca di corte lo conoscesse bene, ma, non avendo a disposizione tutti gli ingredienti “canonici” della ricetta, optasse per la creazione di una variante, usando i più “esotici” pomodori al posto dei tartufi.
Ancora oggi le due varianti dei vincisgrassi, bianchi e rossi, permangono con alcuni adattamenti e i segreti dei ricettari che ogni famiglia e ogni vergara tramandano di generazione in generazione.
Bibliografia generale:
Nebbia A., Il cuoco maceratese, ristampa a cura di Scafà L. e Nebbia S., Grottammare, 1998
Ortolani C., L’Italia della pasta, Touring Editore, 2003
Petra C., Le ricette delle Marche in oltre 450 ricette, Newton Compton Editori, 2015
Spesso pensiamo che la strada sia una conquista della modernità e del progresso; in realtà, sin dalla notte dei tempi, sono state proprio le strade a veicolare i semi della civiltà. Fra tutti i popoli dell’Antichità, furono per primi i Romani a sviluppare una concezione moderna di rete stradale. Le loro opere ingegneristiche sono tutt’oggi presenti e “vive” anche nel nostro territorio marchigiano.
Gli itinerari delle antiche strade marchigiane possono essere ricostruiti principalmente grazie allo studio comparato di tre fonti: i ritrovamenti archeologici, l’Itinerarium Antoninie le opere di cartografia antica, come la celeberrimaTavola Peutingeriana.
Le tre principali vie di comunicazione dell’antico Picenum – che ancora oggi costituiscono i principali assi stradali delle Marche – erano lavia Flaminia, la via Salaria e la via litoranea (chiamata Salaria Picena). Una caratteristica importante della viabilità romana era che le strade secondarie tendevano a mantenere il nome della via principale, specificato da un attributo. Ogni via consolare dava così origine ad un sistema viario ben studiato dal punto di vista strategico e logistico.
La mappa mostra gli itinerari delle principali vie romane che collegavano Roma al Piceno. Precisiamo che alcuni percorsi sono basati su teorie e ipotesi di ricerca e attendono una conferma archeologica.
La via Flaminia collegava Roma a Fanum Fortunae (Fano); da qui proseguiva fino a Ariminum (Rimini), ricongiungendosi alla via Emilia. La via fu costruita da Gaio Flaminio Nepote (da cui il nome) intorno al 220 a.C. e fu ristrutturata più volte in epoca imperiale con opere d’altissima ingegneria, necessarie a vincere le asperità dei tratti montani. Ricordiamo ad esempio la galleria del Furlo, fatta costruire da Vespasiano fra Fossombrone e Acqualagna, nella provincia di Pesaro-Urbino. All’altezza di Nucera (Nocera Umbra) si staccava un’importante diramazione, che raggiungeva Ancona e da qui Fano, costeggiando il litorale. Altre strade secondarie procedevano da ovest verso est seguendo l’andamento delle valli. Ancora nel Medioevo e nel Rinascimento alcune strade di fondovalle venivano chiamate Flaminia.
La Salaria congiungeva l’Urbe a Castrum Truentinum (Martinsicuro), passando per Reate (Rieti) e Asculum (Ascoli Piceno). Itinerario antichissimo, seguiva la direttrice ovest-est, unendo il Tirreno all’Adriatico, per garantire alle città dell’entroterra e all’Urbe l’approvigionamento di sale. Il suo tratto più antico, d’origine sabina, aveva come meta d’arrivo le saline nei pressi di Ostia (cfr. Festo, L 436).
La Salaria è esplicitamente nominata per la prima volta da Cicerone nel 44 a.C. (De natura Deorum, III 5.11: At enim praesentis videmus deos, ut apud Regillum Postumius, in Salaria Vatinius). Pochi decenni dopo, l’imperatore Augusto promosse imponenti lavori pubblici per migliorarne la viabilità dal punto di vista infrastrutturale. A causa delle caratteristiche naturali del territorio, la via seguiva un percorso obbligato: ancora oggi, infatti, per ampi tratti l’odierna Salaria (SS4) segue il percorso della strada antica. Giunta a Castrum Truentum, la Salaria si divideva: verso sud proseguiva fino ad Hadria (Atri); verso nord fino ad Ancona con il nome di Salaria Picena.
La Salaria dava inoltre vita ad una serie di itinerari secondari, che congiungevano le città dell’entroterra marchigiano meridionale, secondo la direttrice sud-nord. Questa complessa rete viaria prendeva il nome di Salaria Gallica.
La diramazione più importante della Salaria Gallica si staccava nei pressi di Surpicano, stazione di sosta che sorgeva molto probabilmente dove oggi si trova la chiesa di San Salvatore ad Arquata del Tronto. Attraversando i Sibillini, continuava verso Urbs Salvia (Urbisaglia) e raggiungeva Aesis (Jesi), riallacciandosi così al ramo marchigiano meridionale della Flaminia. Da Amandola, un ulteriore diverticolo si immetteva nella valle del Tenna e raggiungeva Castellum Firmanorum (Porto San Giorgio), passando per Falerio Picenus (Falerone) e Firmum (Fermo).
Ad Ascoli Piceno, dal ponte romano di Borgo Solestà, aveva origine l’altra importante diramazione della Salaria Gallica: la cosiddetta via Statia, che costeggiando le pendici dell’Ascensione e poi attraverso Montedinove, Monterinaldo e Petritoli arrivava a Fermo.
Più a nord, da Aesis (Jesi) aveva origine anche un raccordo fra la Salaria Gallica e la Salaria Picena: la via Octavia, realizzata da Marcus Octavius Asiaticus in epoca augustea, come testimonia il Lapis Aesinensis. Da Jesi, correndo sulla sponda sinistra dell’Esino arrivava sino ad Ancona, in località Santa Maria di Posatora o Le Torrette.
Riassumendo, nel Piceno la Salaria e la Flaminia davano origine ai due fondamentali sistemi viari: uno che seguiva la direttrice sud-nord (Salaria Picena e Salaria Gallica), l’altro che seguiva la direttrice ovest-est (Flaminia). I due sistemi si incrociavano, permettendo una viabilità di terra estremamente funzionale.
A questa strutturata rete viaria di terra si affiancavano i collegamenti fluviali: infatti, in epoca romana i fiumi marchigiani erano quasi tutti navigabili e costituivano le vie di comunicazione privilegiate per i traffici commerciali.
La mappa mostra gli itinerari delle principali vie romane che collegavano Roma al Piceno. Precisiamo che alcuni percorsi sono basati su teorie e ipotesi di ricerca e attendono una conferma archeologica.
Pietra miliare di Tito, conservata presso il Museo archeologico di San Severino Marche
Lapis Aesinensis, Museo Archeologico Nazionale delle Marche (Ancona)
In passato per Fermano si indicarono due realtà territoriali analoghe, a seconda delle vicissitudini storico-politiche che unirono le due principali città, Fermo ed Ascoli, in un comune destino. Fermano fu a volte sinonimo diPiceno, ma più spesso ne indicò una porzione, generalmente coincidente con le attuali Marche meridionali.
Un documento del 983 d. C. attesta per la prima volte l’esistenza della Marca Fermana (Marchia Firmana), che fu una parte del Ducato Longobardo di Spoleto. Il suo territorio era compreso tra il fiume Musone ad nord e il Sangro a sud e comprendeva i Comitati di Camerino, Ascoli Piceno, le zone di Chieti e Teramo. In seguito alle complesse vicende storiche che videro antagonisti il papa e il re dei Normanni, la Marca Fermana si ridusse alla sola area delle Marche meridionali: nel 1080 il fiume Tronto fu preso come confine naturale tra lo Stato della Chiesa e il regno normanno.
Vista su Petritoli (FM)
Nel XIV secolo lo Stato Pontificio annetté completamente la Marca Fermana, che rimase assoggettata a Roma fino all’Unità d’Italia. Nel 1860, Fermo ed il suo territorio entrarono a far parte della provincia di Ascoli Piceno, non senza proteste: i fermani rivendicarono a lungo il loro diritto di trasferire nella loro città il capuologo di provincia. Ciò è avvenuto con la costituzione della provincia di Fermo nel 2009, che per la prima nella storia ha separato politicamente i due territori. Oggi, dunque, per “Fermano” si intende il territorio compreso da tutti i comuni che ne fanno parte.
Foto del pittore appesa nel suo studio (Casa Museo Licini).
Osvaldo Licini nacque a Monte Vidon Corrado il 20 Marzo 1894, da genitori entrambi creativi: padre cartellonista e madre direttrice di un atelier di moda. Poco dopo la sua nascita, i suoi si trasferirono a Parigi ed egli restò a vivere nel paese natale, dove trascorse i primi anni di vita con i nonni paterni.
Verso il 1911 il giovane Licini si trasferì a Bologna. Qui si iscrisse al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti. Nel 1914, sempre nel capoluogo emiliano, organizzò la sua prima esposizione insieme al compagno di corsi Giorgio Morandi, Mario Bacchelli, Severo Pozzati e Giacomo Vespignani. La collettiva fu subito definita la “mostra dei secessionisti”, per via del loro spirito anti-accademico, sottolineato dalla presenza di Marinetti, presente all’apertura. In quegli anni, Licini fu seguace del movimento futurista, di cui cercò di cogliere lo spirito non solo con il pennello, ma anche con la penna: fu autore di una raccolta di storie musicate intitolata “I racconti di Bruto”.
Dopo il diploma, andò a studiare scultura all’Accademia di Firenze, ma il suo corso di studi fu interrotto dallo scoppio della Grande Guerra: nel 1915 partì soldato e venne ferito ad una gamba. Fu proprio durante la convalescenza che conobbe la donna che sarebbe diventata la madre del suo unico figlio naturale, Paolo.
Nel 1917 si trasferì a Parigi, che in quegli anni era la capitale mondiale della cultura: un crogiuolo di musicisti, artisti, letterati e filosofi. Nella capitale francese, ebbe la straordinaria opportunità di conoscere Picasso e strinse amicizia con Modigliani. Licini cominciò a dividersi fra Firenze e Parigi, con permanenze più o meno lunghe a Monte Vidon Corrado, Montefalcone, Porto San Giorgio e Fermo. In quest’ultima divenne un insegnante del prestigioso Istituto Tecnico Industriale di Fermo, continuando allo stesso tempo ad esporre le sue opere nella capitale francese.
Nel 1926 sposò la pittrice svedese Nanny Hellström, decidendo di trasferirsi in pianta stabile nel paese natale, Monte Vidon Corrado. La “vita di provincia” non frenò la sua carriera artistica, che anzi divenne sempre più impegnativa e fitta d’appuntamenti, con esposizioni a Milano, Parigi, Roma, Basilea, Berna e Stoccolma.
A proposito dello stile pittorico di quegli anni, Licini stesso scrisse: “La mia pittura preastratta è pittura fauve che viene da Cèzanne, Van Gogh e Matisse, tra i maestri di prim’ordine, e i miei disegni lo possono provare”.
Nel 1935, il suo stile mutò direzione: fu uno dei primissimi artisti italiani a sperimentare l’astrattismo che conobbe a Parigi, attraverso le opere di Vasilij Kandiskij, Klee e Man Ray.
A partire dagli anni ’40, nonostante il fermo proposito di non esporre nulla per tutto il periodo della Seconda guerra mondiale, cominciò ad avvicinarsi al surrealismocon influenze simboliste e nordiche, che, unendosi tra loro, davano forma ad un mondo fantastico, abitato da creature inquietanti, eroiche ed affascinanti. Nacquero così le Amalassunte, le sue più amate creature (1945). L’Amalassunta è, come ha scritto Licini stesso poi, “la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”.
Nell’aprile del 1958 Osvaldo Licini espose per la terza volta alla Biennale di Venezia e fu insignito del Gran Premio per la Pittura. Di lì a poco, si spense nella sua casa di Monte Vidon Corrado, in un ritirato rifugio, tra le sue amate colline marchigiane.
Come per per altri uomini e donne d’arte di ogni luogo e tempo, anche per Licini il paesaggio fu un elemento fondamentale nella sua opera. Il paesaggio idilliaco di Monte Vidon Corrado si legò in modo profondo alla sua pittura, tanto da diventarne una componente essenziale. Licini, benché riservato, fu una personalità molto nota e amata nel suo paese, tanto da influenzarne la vita politica. I suoi concittadini, ammaliati dalla sua personalità, lo elessero sindaco per ben due volte, candidato con il Partito Comunista Italiano.
Piceno (Picenum) è il nome che i Romani diedero alla loro Quinta Regio, desumendone il nome dal popolo dei Piceni, che abitavano questa terra già dall’XI secolo a. C.
Centro storico di Montedinove (AP)
L’antico Piceno abbracciava grossomodo le Marche meridionali, l’attuale provincia di Teramo e una parte dell’attuale provincia di Pescara. I suoi confini naturali erano: il fiume Esino a nord, l’Appennino ad Ovest, il fiume Saline a sud e il mar Adriatico ad est.
Oggi si è soliti riferirsi al Piceno, intendendo la sola provincia di Ascoli Piceno.
Il Monte Conero, uno dei luoghi simbolo delle Marche
Le Marche sono una regione dell’Italia centrale, situata lungo la costa adriatica. Essa è suddivisa in cinque province: Pesaro-Urbino, Ancona, Macerata, Fermo e Ascoli Piceno.
Già a partire dall’Età del Ferro, questa terra fu abitata da una miriade di popoli : Piceni, Siculi, Umbri e Galli. Anche nei secoli successivi, restò una terra variopinta, suddivisa in Stati più o meno estesi, più o meno duraturi. Non a caso, dopo essere stata nominata Picenum dai Romani, assunse durante il Medioevo il nome di Marche, proprio al plurale. In epoca feudale, infatti, la marca indicava un territorio di confine e le Marche lo furono di diritto, prima del Sacro Romano Impero, poi dello Stato Pontificio.
Le Marche restano un regione al plurale ancora oggi, un Arlecchino di città, di borghi, di dialetti e di paesaggi! Dai suoi colli, lo sguardo spazia dal mare Adriatico ai monti Appennini, in un paesaggio dolce e ondulato, che sembra più frutto di un sogno, che della realtà.